Sul piano politico, la Gran Bretagna continua a considerarsi una potenza a se stante, piuttosto che una potenza europea: questo mix di eccezionalismo e insularismo, combinato all’idea che l’ex impero britannico possa ancora aspirare a una proiezione globale, ha offerto a Brexit un sostrato psicologico. Ha permesso, in sostanza, che una decisione totalmente irrazionale – figlia delle spaccature interne al Partito conservatore – diventasse realtà con il Referendum del giugno 2016.
Il danno, per i britannici, è stato enorme. Brexit ha dimostrato che una classe dirigente ritenuta pragmatica e sensata, non aveva in realtà alcuna idea di come gestire le conseguenze della prima secessione volontaria dall’UE. Nel negoziato con Bruxelles, Londra ha sbagliato praticamente tutto, illudendosi di trattare da una posizione di forza. La realtà era diversa: restando unita (per una volta) e rifiutandosi di concedere alla Gran Bretagna condizioni speciali per l’accesso al mercato unico, l’Unione europea ha dimostrato ai britannici (e a tutti gli europei) i costi economici e politici del divorzio dal Vecchio Continente.
La Gran Bretagna, pronosticano gli amici inglesi, ci metterà anni per riprendersi. Per il politologo Julian Lindley French, la prima Brexit della storia – lo scisma di Enrico VIII dalla Chiesa cattolica romana, nel 1534 – fu superata solo nel 1689, con la “Glorious Revolution” e una guerra civile. Oggi, l’Europa ha inflitto una sconfitta pesante agli inglesi, che sono in preda a un autentico psicodramma politico. Al punto che gli scenari, visti gli smottamenti a Westminster, non sono per nulla chiari. La sospensione di Brexit, con il rinvio della data di uscita, è una delle possibilità. In quel caso, la democrazia rappresentativa, nella sua patria di origine, si sarebbe presa una rivincita sulla democrazia diretta.
Vedremo con i voti a Westminster di questa settimana: i meccanismi degli emendamenti parlamentari e la disgregazione in atto nei due partiti principali hanno aumentato la possibilità di un rinvio, dopo il voto contrario al “no-deal”. L’Unione Europea dovrebbe concederlo; poi il negoziato continuerà, a condizioni certo non favorevoli per Londra.
L’Europa, dopo avere dimostrato di sapere reggere alla sfida inglese, non ha nessun interesse a stravincere. E’ vero che la Gran Bretagna ha tentato, per più di 40 anni, di frenare il processo di integrazione europea, e non solo di negoziare i suoi “opt-out” (dall’euro, da Schengen, dalla politica estera e di difesa comune). Ma l’idea che, liberandosi del freno inglese, l’Unione europea diventi più forte è una pericolosa illusione. Come attore del mercato unico, Londra ha contribuito fortemente alla sua vitalità. Come potenza militare, la Gran Bretagna ha almeno in parte compensato la debolezza europea. Su entrambi i fronti, la voce inglese ha bilanciato la cultura politica tedesca nelle sue declinazioni attuali: l’ordo-liberismo in economia, la riluttanza in politica estera. Una Europa senza Gran Bretagna sarà più sbilanciata sul piano geopolitico: aumenterà il peso economico relativo della Germania e il peso militare della Francia. Per paesi come l’Italia, che si trovano ormai in posizione marginale rispetto alla coppia franco-tedesca, tenere agganciata la Gran Bretagna diventa una priorità.
Nel dopo Brexit, l’Europa dovrà aprire con Londra una seconda fase negoziale. Nella prima ha giustamente dominato l’esigenza di non premiare l’uscita dall’UE, così da scoraggiare altre exit. Dalla fine di marzo in poi, il problema centrale diventa quello di tenere agganciata la Gran Bretagna. Non si collocherà esattamente “mezza fuori e mezza dentro”, sarebbe troppo facile. Ma che Londra resti un partner strategico dell’UE (salvando così l’accordo relativo all’Irlanda e la sua stessa coesione come United Kingdom) è anche un nostro preciso interesse.