È stato, quello di Ise-Shima, un G7 molto giapponese, cominciato all’ombra del luogo più sacro dello shintoismo e finito davanti al rudere che a Hiroshima testimonia la tragedia della bomba atomica. Il primo ministro Abe Shinzo lo ha preparato e presieduto con in mente un piano preciso, adeguato alle sue specifiche esigenze, in buona parte concentrate su una delicata scadenza: il voto di luglio, per ora limitato al rinnovo della Camera Alta ma che potrebbe allargarsi ad un turno anticipato di elezioni generali. Il punto di arrivo, tutto politico, è il cambiamento della Costituzione: ciò darebbe concreta pienezza alla svolta nazionalistica portata avanti dal primo ministro.
Abe si è sforzato, senza incontrare resistenze da parte dei partner, di indirizzare il G7 sui temi economici: sono questi a determinare la sua popolarità, e quindi il suo eventuale successo elettorale. Ha ritenuto pertanto molto utile un avallo internazionale alla sua ricetta per risollevare il Giappone dalla stagnazione in cui tuttora si dibatte. D’altro canto, era consapevole che sarebbe stato impossibile ottenere soddisfazione su tutti i fronti e in particolare su quello del “rigore”, a difesa del quale sono schierate Germania e Gran Bretagna; impossibile anche aggirare le divergenze sul terreno della politica valutaria, che vede il Giappone contrapposto in primo luogo agli USA. Ma un abile uso del suo ruolo di presidente di turno del G7, e un’attenta azione diplomatica in sede di stesura della Dichiarazione finale, hanno infine dato ad Abe gli argomenti giusti da spendere con l’opinione pubblica giapponese.
Al vertice del G7 Abe ha difeso la flessibilità, in parte in sintonia con Italia e Francia. La sua priorità è ora il sostegno a investimenti e consumi, anche a costo di rinunciare a quelle entrate fiscali su cui dovrebbe basarsi il welfare. Altrettanto importante sarebbe invertire la tendenza al calo delle esportazioni (ad aprile del 10% rispetto allo stesso mese del 2015). La chiave del successo per Abe resta un’inflazione controllata intorno al 2% che scacci lo spettro della deflazione, e la lotta all’apprezzamento dello yen rispetto al dollaro (obiettivi di cui si parla da tempo ma ancora lontani dall’essere stati raggiunti). Nulla che contraddica la combinazione di misure monetarie, strutturali e fiscali predicata dal G7. Anzi il premier giapponese ha tenuto a fare notare che la triade di misure indicate dai Grandi coincide con le “tre frecce” della Abenomics (la ricetta economica del premier giapponese).
Ma l’enfasi, a suo parere, va messa sugli stimoli fiscali: è questo il nocciolo della contrapposizione con la “disciplina fiscale” difesa dal duo Merkel-Cameron. E se la Dichiarazione finale si limita a mettere in fila le varie opzioni senza concedere un riconoscimento speciale al rilancio degli investimenti e dei consumi, Abe può consolarsi con il paragrafo in cui si sottolinea come non esistano ricette valide per tutti e si afferma che ciascun Paese deve muoversi secondo le sue specificità. L’operazione ha avuto politicamente successo: secondo un sondaggio del 28 maggio la sua popolarità in patria ha fatto un salto del 7%, raggiungendo il 55%.
Il mantra della leva fiscale porta a mettere in secondo piano il mastodontico debito pubblico giapponese, il più pesante tra i 7 essendo il doppio del PIL. Portare il debito a livelli sostenibili, come recita la Dichiarazione finale, resta un obiettivo, ma legato a “politiche fiscali e di spesa pubblica compatibili con la crescita” nonché a investimenti che permettano di sostenere “produttività, occupazione, inclusività e crescita”. Ciò significa in sostanza che Tokio vuole anteporre al “rigore” l’espansione dell’economia.
Abe ha tradotto in pratica questo concetto dalle mille implicazioni – sempre con le elezioni nel mirino – in modo molto semplice e immediatamente recepibile: il 1° giugno ha annunciato il rinvio di due anni e mezzo dell’aumento dell’IVA, che doveva riassestare le casse pubbliche ma rischiava – lo urlano gli esponenti dell’opposizione guidata da Okada Katsuya e lo affermano premi Nobel come Paul Krugman e Joseph Stilglitz – di bloccare la ripresa.
Per questo Abe non si è limitato a manifestare dubbi sullo stato di salute dell’economia mondiale ma si è spinto a dichiarare, in sede ufficiale, che “la situazione dell’economia globale è simile a quella del periodo che ha preceduto la crisi della banca d’affari Lehman Brothers, con tutto ciò che ne è derivato”.
In realtà, il suo “pessimismo” nasce appunto da un calcolo di opportunità interna. Il rinvio dell’aumento dell’IVA dall’8 al 10%, per quanto popolare, rischia di dare l’impressione di un governo che naviga a vista sulla politica economica, perché l’Abenomics non funziona più. L’immagine di un mondo sull’orlo di una nuova devastante crisi aiuta a spostare il focus della responsabilità ben oltre Tokio e assolve Abe dall’accusa di non rispettare gli impegni presi: mai più rinvii, aveva dichiarato nel 2014, a meno di un nuovo Lehman shock all’orizzonte..
Abe non si è poi sottratto all’obbligo di sottoscrivere la condanna del disordine valutario e delle svalutazioni per favorire la competitività – due strumenti della Abenomics appunto – inchinandosi al volere di Washington. Allo stesso tempo, il ministro delle Finanze Aso Taro ha ribadito che l’attuale debolezza dello yen dipende da operazioni speculative che saranno corrette dalla banca centrale; e che dunque la svalutazione è solo una conseguenza passeggera, non certo l’obiettivo, della politica monetaria espansiva lanciata dal Giappone. Nulla a che vedere, insomma, con l’esecrabile politica monetaria cinese tacciata spesso come “manipolazione valutaria”. E non è colpa del Giappone se, stando così le cose, la bilancia commerciale con gli USA parla a favore di Tokyo.
Anche i fattori più strettamente politici, seppure di impatto meno immediato, avranno un peso sulle elezioni. Il premier giapponese ha ottenuto ben poco sul dossier cinese e su quello russo: le sanzioni a Mosca sono state confermate, mentre Tokio ha bisogno di una distensione per sbrogliare la questione dei territori giapponesi contesi con la Russia. Per il resto, nella condanna alla Corea del Nord è stato sì inserito un riferimento ai giapponesi rapiti dagli agenti segreti di Pyongyang, ma sulle operazioni di Pechino nel Mar Cinese non si è andati oltre l’espressione della “preoccupazione”, da parte del G7. Troppo poco, insomma, da spendere sul mercato elettorale, se non ci fosse stata la visita di Obama a Hiroshima, molto gradita alla gente (98% di approvazione).
Due almeno i motivi per cui Abe può utilizzarla a suo vantaggio. In primo luogo, espurgato del suo tasso di utopia, il richiamo di Obama a un mondo libero dalle armi atomiche appare rivolto verso quel quadrante estremo orientale su cui Abe intendeva sensibilizzare l’intero blocco occidentale. E’ quello, infatti, uno dei più preoccupanti focolai di proliferazione nucleare. D’altra parte, innaffiato di realismo, il sogno obamiano non può diventare che un processo a tappe. La prima, disinnescata la minaccia iraniana, è inevitabilmente il disarmo della Corea del Nord.
In secondo luogo la prima visita a Hiroshima di un Presidente americano in carica (il 27 maggio) può facilmente rafforzare uno dei cardini ideologici di Abe, che ha innervato anche la riforma costituzionale – forse il più contestato sia all’interno sia all’estero: si tratta di chiudere la fase storica del dopo Seconda guerra mondiale e di avviare una nuova era in cui il pacifismo passivo sancito dalla Costituzione e garantito dall’ombrello americano si trasforma in una “attiva partecipazione alla costruzione della pace”. E infatti, Pechino non ha mancato di far sentire le sue proteste al riguardo.