Un punto sul percorso delle primarie, in attesa del “Super Tuesday” del 5 marzo

Le primarie del partito Repubblicano in Iowa (tecnicamente un “caucus”) e quelle in New Hampshire potrebbero essere state la prova generale delle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre? Pochi giorni dopo le due votazioni, che hanno decretato Donald Trump vincitore, proviamo a cercare la risposta tracciando un quadro su quello che vedremo e che non vedremo – pur desiderandolo – nella campagna elettorale presidenziale più lunga d’America.

Donald Trump in New Hampshire

 

La doppietta di Trump

Il primo appuntamento delle primarie del GOP, in Iowa, è finito così come è stato raccontato dai sondaggi: con la vittoria di Donald J. Trump, 51,1% dei voti, dichiarata prima ancora che le assemblee elettive si concludessero. Al secondo posto, con un distacco di circa 30 punti, Ron DeSantis al 21,1% e al terzo Nikki Haley con il 19,1%, per un totale di 110.298 voti espressi; nel 2016 erano stati 187 mila. Uno tsunami che ha cambiato in poche ore lo scenario: DeSantis, dopo Vivek Ramaswamy e Chris Christie che si sono ritirati, ha abbandonato la corsa, lasciando la contesa solo a Nikki Haley e Trump. In New Hampshire, quest’ultimo ha vinto con un risultato anche più ampio, 54%, contro Nikki Haley, rimata in corsa, ma le primarie in questo Stato erano aperte anche agli elettori non Repubblicani. Nonostante la partita sia ancora aperta, quello che è successo in Iowa e New Hampshire non fa presagire una battaglia veramente competitiva.

Cosa è successo in Iowa? Nessun ‘drama’ né sorpresa, pochi i giornalisti presenti, in calo anche gli elettori ai caucus sebbene un po’ di folla per quelli di Trump ci sia stata; numerosi invece gli esperti legali nei talk show per commentare non solo i risultati delle primarie ma i 91 capi d’accusa dei quattro processi contro l’ex presidente. Solo in Iowa sono stati spesi (o sperperati?) 123 milioni di dollari in pubblicità tra tutti i contendenti alle primarie repubblicane; una cifra che si avvicina a quanto il ticket Biden-Harris ha raccolto finora, 97 milioni di dollari. La neve e la coltre di gelo caduti sullo Stato sono stati più commentati del primo dei caucus del GOP: diversi appuntamenti che i candidati avevano nelle 99 contee sono saltati, così molti reporter sono rimasti al caldo nelle redazioni e si presume che numerosi elettori Repubblicani siano rimasti a casa per lo stesso motivo, tanto le domande che potevano rivolgere ai principali contendenti, Donald Trump, Nikki Haley e Ron DeSantis, hanno trovato risposta sui social media. Il gelo è riuscito a regalare agli americani anche l’immagine del settantasettenne Trump che cammina con disinvoltura nella neve, volendo dimostrare che può fare meglio dell’ottantunenne Biden: un esponente del partito Repubblicano ha subito twittato l’immagine su X.

In New Hampshire, Haley ha perso contro Trump attestandosi al 43%: un risultato discreto ma non entusiasmante per l’unica sfidante rimasta. Anche perché, a guardare la storia delle primarie Repubblicane, il candidato che si aggiudica la vittoria nei primi due Stati conquista la nomination.

Dopo il New Hampshire, insomma, l’unica cosa che può fermare Trump sono i processi: almeno uno dei quattro in cui è imputato, che difficilmente però arriveranno a sentenza prima della convention di luglio in cui sarà ufficialmente investito come candidato alla Casa Bianca. Oppure la pronuncia della Corte Suprema prevista nei primi giorni di febbraio; ma sarà improbabile un verdetto negativo per Trump, vista la sua composizione a favore dell’ex presidente. La Corte deciderà se il XIV Emendamento – “non può ricoprire cariche pubbliche chi è coinvolto in un’insurrezione o ribellione” vale per Trump, in riferimento all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, dopo le elezioni vinte da Joe Biden. La Corte dello Stato del Colorado, poche settimane fa, si era espressa in maniera positiva (ma la composizione della Corte del Colorado è decisamente lontana da Trump dal punto di vista politico), decretando l’esclusione di Trump dalle primarie in calendario il prossimo 5 marzo, il ‘Super Tuesday’ – ma condizionando l’effettività della decisione al verdetto della Corte Suprema.

 

Il fronte politico-giudiziario

L’ex presidente ha deciso di usare i suoi guai giudiziari come carburante per compattare il partito attorno a sé, e sta funzionando. L’ultima offensiva mediatica di Donald Trump è arrivata infatti con la sua foto segnaletica che il carcere della contea di Fulton, in Georgia, ha diffuso a fine agosto. In Georgia, Trump è accusato di aver cospirato insieme a 18 co-imputati e ai suoi avvocati per ottenere e falsificare voti a suo favore che annullassero la vittoria di Biden in quello Stato, alle presidenziali del 2020. Quella foto è una smorfia piena di riluttanza ed aggressività, con l’intento dichiarato di intimidire.

Da quell’immagine dell’agosto scorso, dopo essere uscito dalla sua casa a Mar-A-Lago, Trump è tornato a farsi sentire, alzando sempre più la posta, corredando di livore il linguaggio, aizzando i suoi sostenitori. Ha parlato del “sangue americano contaminato” dai migranti che intende rispedire indietro quando diventerà presidente, ha detto che farà il dittatore almeno (o anche solo) per un giorno; ha scavato un fossato alla sua destra: chiunque provi a sfidarlo su questo fronte cadrà, come è caduto DeSantis, il quale aveva provato a rubare consensi all’estrema destra dei conservatori.

Trump si è dimostrato più forte. Ha indossato i panni del distruttore, enfatizzando la sua forza e camuffando le sue vulnerabilità dovute ai procedimenti in corso: il 63% degli intervistati che hanno partecipato ai caucus in Iowa ha dichiarato che Trump può assumere la carica di presidente anche se condannato. E così l’ex presidente ha centellinato la sua presenza in Iowa e New Hampshire per galvanizzare i sostenitori, ha conquistato gli evangelici che gli hanno offerto un plebiscito e lo stanno trasfigurando in una specie di ‘profeta’, trasformando l’America ‘rossa’ – repubblicana – in qualcosa che trascende la politica. Sono stati davvero pochi i presidenti o ex presidenti che hanno creato un immaginario quasi plastico nel proprio elettorato, ma Trump ci è riuscito. Anche quando su X si è diffusa l’immagine di un Trump barcollante, in Iowa, in totale contrapposizione con la foto dell’incedere solido e sicuro di un Gulliver in una terra di Lillipuziani, di qualche giorno prima, i suoi simpatizzanti ed elettori non hanno fatto una piega.

 

La questione di genere

E poi c’è Nikki Haley, l’immagine e la realtà di una donna di origini asiatiche (entrambi i genitori sono indiani), che attraversa il palco da sinistra a destra incessantemente, quando parla, segno di una dinamicità o di un’incertezza. Haley è la variante femminile e decisamente più giovanile in questa corsa, che fa riemergere il tema di genere, il problema enorme di avere due maschi ottantenni in corsa per la Casa Bianca (Biden e Trump). La sua candidatura ha riportato alla luce la misoginia del suo partito, che non ha battuto ciglio quando Trump l’ha insultata chiamandola “cervello di gallina”. Nonostante non vi sia un dibattito particolarmente vivace sulla questione in America, che queste non sembrino essere davvero elezioni per donne ce lo confermano anche un paio di dati evidenziati da ‘The Atlantic recentemente: c’è una parte di elettori di destra che crede che il Me Too sia stato un movimento aggressivo e ingiusto, che le donne dovrebbero tornare a ruoli tradizionali perché il maschio bianco è il vero perseguitato dalla società americana.

Nikki Haley in un momento della sua campagna elettorale

 

In effetti con solo il 28% di donne elette al Congresso, se Haley non dovesse farcela ad arrivare al ‘Super Tuesday’ il 5 marzo, dove si assegnano molti delegati, significherebbe quello che queste presidenziali non saranno: un’elezione che innalzi il tema di genere al centro della politica americana. Hillary Clinton è stata una candidatura femminile forte ma ha perso contro Trump, il quale ha legittimato un linguaggio e una narrazione violenta contro le donne, oltre alle sue notorie battute e alle accuse di molestie che sono arrivate in tribunale in queste settimane.

Con le elezioni di metà mandato del 2018, in cui i Democratici hanno ripreso la Camera grazie alle tante donne elette e alle minoranze, era tornata un’ondata di candidature al femminile. La senatrice Elizabeth Warren era stata in testa ai sondaggi alle primarie Democratiche del 2020 – infine vinte da Biden – prima di ritirarsi. Ma il partito Democratico non è più riuscito ad esprimere una figura di leadership femminile. Kamala Harris resta una figura nell’ombra, vicepresidente e di nuovo nel ticket democratico 2024, così come anche Haley rischia di restare al massimo una vice per Trump.

Ambasciatrice all’ONU durante la presidenza Trump, Haley è riuscita ad uscirne prima della fine rovinosa del suo capo. È forse l’unica nel suo partito a credere che le elezioni del 2020 siano state vinte da Biden. E, come il governatore della Florida DeSantis, ha esperienza politica, avendo fatto due mandati da governatrice della South Carolina. Il New Hampshire era però per lei un territorio incerto: il 92% della popolazione è bianca, vicina ai conservatori si direbbe – anche se dal 1992 è anche lo Stato dove i Democratici sono riusciti a vincere per sette volte su otto. Nel 2020, in New Hampshire, Biden ha vinto di sette punti contro Trump: qui c’era l’opportunità di decidere se Haley avrebbe cambiato il corso della storia del Paese (non solo del suo partito) perché qui l’opposizione all’obbligo del vaccino anti-Covid convive con la difesa dell’aborto. Insomma, il New Hampshire poteva essere terreno fertile per i Repubblicani anti-Trump.

 

Le (poche) carte di Nikki Haley

Anche se viene accusata di aver tradito il marito e ha bandito dalla sua campagna il quotidiano inglese Daily Mail, che ha riportato la notizia, l’ex governatrice del South Carolina rappresenta infatti l’unica chance che quel che resta del GOP non trumpiano ha ancora da giocare. Haley resta una donna di destra che vorrebbe far entrare solo i migranti per merito, una proposta piuttosto assurda sul piano pratico e legale, ed è contraria all’aborto, ovviamente, ma ha dichiarato che non vorrebbe vedere una donna in tribunale o, peggio, in carcere, per averlo fatto. Haley ha registrato una crescita enorme nei sondaggi, soprattutto dall’estate scorsa, e da novembre il consenso per lei non ha fatto che aumentare. Ma nel New Hampshire ha motivato gli indipendenti meno di quanto Trump abbia fatto con i suoi tifosi MAGA. Anzi: stando ai sondaggi, gli indipendenti del New Hampshire, che in queste primarie segue regole diverse, aprendo le votazioni a tutti, hanno dichiarato che alla fine voteranno per Biden.

Lo Stato del New England, con una diversa composizione sociale, non poteva fornire quella base di evangelici che ha sostenuto Trump in Iowa. Ma ciò che può piacere agli indipendenti del New Hampshire, non basta alla base Repubblicana: Haley si è guardata bene dal criticare il suo ex capo, ha tentato di essere più dura ma la passione dei MAGA, e quindi dei pro-Trump, è più forte di qualsiasi ‘gentile critica’. Haley, in cambio, è stata definita da Trump e anche da DeSantis una “Hillary Clinton Repubblicana”, per la precisione “Crooked Hillary”; il suo ex capo ha messo in discussione la sua legittimità come americana, proprio come fece con Obama, e nel pescare nell’universo liberal e femminile, Trump l’ha volutamente scambiata per Nancy Pelosi, l’ex Speaker della Camera dei Democratici. Confondere le acque, solleticare gli immaginari con i personaggi liberal più odiosi per gli elettori repubblicani, è una mossa attentamente pensata da Trump. L’immaginario è più forte di qualsiasi realtà.

Quello che però più conta per Haley sono i soldi e il potere dei sostenitori anti-Trump. La candidata ha guadagnato il sostegno del governatore del New Hampshire, Chris Sununu, e di molti Senatori e Deputati dello Stato, che le hanno fatto ottenere i finanziamenti del miliardario Charles Koch con le risorse della sua organizzazione ‘Americans for prosperity’ e un quelle di un buon numero di CEO e di ex finanzieri di Wall Street che temono il protezionismo di Trump. Ma i grandi donatori Repubblicani come Ken Lanegone ancora non vogliono scommettere su di lei. Lanegone come altri hanno detto di voler aspettare che vinca almeno in uno Stato per un ‘major gift’ e ancora non è chiaro se lo faranno. Così come il Repubblicano Tim Scott, del South Carolina, che lei stessa ha sostenuto per il Senato nel 2013, ha deciso di voltarle le spalle e sostenere Trump.

Haley, fino al Super Tuesday o forse prima in South Carolina (24 febbraio), ha ancora qualche possibilità sparigliare le carte. Anche con Biden – alcuni sondaggi la danno vincente sul Presidente, se fosse lei la candidata dei Repubblicani – perché parla di ricambio generazionale, di saper guardare oltre Trump per non restare invischiati con il passato. La verità però, in attesa dei risultati delle altre primarie in programma, è che sembra che agli elettori Repubblicani il futuro non interessi, come del resto all’anti-Trump Ron DeSantis, che appena si è ritirato ha fatto un endorsement per… Trump.

 

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I Repubblicani e la base preferiscono rimanere in un fermo immagine, anche di un Trump che sbraita in tribunale e rischia di farsi cacciare dal giudice, come ha fatto il 17 gennaio in uno dei processi a suo carico. E il New Hampshire poteva essere un’occasione per deviare il corso di primarie che invece continuano a sembrare scontate: in tutti gli altri Stati il vantaggio dell’ex presidente è molto solido. Haley intende arrivare al 5 marzo e la sua campagna dipenderà da quanto convincerà gli indipendenti negli altri Stati e se riuscirà a scalfire lo zoccolo duro della base a favore di Trump.

 

Senza alternative a Biden

Se questo è lo scenario, se rischiano di essere ancora ‘quei due’, Trump e Biden, esiste davvero la possibilità di un’alternativa a questo duello? “Are you going to let yourself be used by the party bosses, who in their smoke-filled rooms in Los Angeles expect to hand-pick the next president of the United States?”. A chiederlo all’elettorato delle primarie democratiche era John F. Kennedy in uno spot tv del 1960 (Los Angeles fu la sede della convention Democratica del 1960). Ce lo ricorda David Plouffe, l’ex direttore della campagna del 2008 di Barack Obama, in un articolo sul Washington Post del 2017.

La campagna elettorale del 1960 fu la prima a parlare in modo disintermediato agli elettori, anche con il tentativo di travalicare i meccanismi interni ai partiti per la selezione dei candidati. Nulla di tutto questo si profila nelle elezioni del prossimo 5 novembre: Joe Biden si ricandida nonostante lo scontento della base e anche del partito, ma senza che nessuno al suo interno vi si opponga apertamente.

Alle elezioni, Biden porterà un partito che ha fatto una buona performance nelle elezioni di medio termine del 2022, di solito penalizzanti per il Presidente in carica, ma i Dem sono riusciti a mantenere il Senato e a contenere le perdite alla Camera. Biden ha un tasso di approvazione del 39,1%, in realtà un punto in più di quello che aveva Trump (38%) alla fine della sua presidenza, chiusa dall’assalto a Capitol Hill tre giorni prima della nomina ufficiale di Biden. Obama, al termine del suo secondo mandato, si mantenne su un solido 54,2%.

Quella del Presidente Biden è una ricandidatura contraddittoria: di establishment, decisa in “quelle stanze piene di fumo” ma senza che vi sia l’intero partito dietro, tanto che se egli rinunciasse a correre probabilmente i Dem si spaccherebbero ancora di più sulla scelta del nuovo candidato, e la finestra affinché questa rinuncia possa compiersi è ormai sempre più stretta. È infatti molto difficile se non impossibile che spunti fuori un nuovo o una nuova candidata al suo posto. Sebbene le primarie vi siano anche per i Dem, è altamente probabile se non certo che Joe Biden e Kamala Harris siano il ticket del 2024: un coniglio dal cilindro del partito Democratico non è previsto, men che meno con una investitura del solo partito alla convention Democratica di Chicago di agosto 2024.

Sebbene la base degli elettori Dem, come anche il partito, abbia timore che un ritorno di Trump alla Casa Bianca sia una minaccia per la democrazia, viene da chiedersi come mai abbiano assecondato o scelto che a sfidarlo sia Biden, un uomo bianco di 81 anni, abbastanza impopolare, con due fronti internazionali aperti verso i quali non riesce ad imporre delle scelte, né agli alleati – vedi il premier israeliano Benjamin Netanyahu – né al Congresso con l’approvazione dei fondi per l’Ucraina. Sia i leader del Partito Repubblicano che quelli del Partito Democratico si sono mostrati incapaci e timorosi nel voler sfidare i rispettivi incumbent. Nel caso dei Dem, provare a far ritirare Biden era forse una partita più facile, perché Trump ha espropriato il partito, mentre il presidente non l’ha fatto.

Due soli sono i candidati che cercheranno di popolare il deserto delle primarie democratiche, il deputato Dean Philipps e la guru Marianne Williamson – candidature soltanto simboliche. Come detto, il margine per cambiare il candidato è strettissimo, si tratterebbe di riorganizzare le primarie, generando sicuramente del caos e dando l’impressione di essere ancora più impreparati. Del resto, a giustificare questa ‘non scelta’, Biden ha detto che non si sarebbe candidato se non vi fosse stato Trump a sfidarlo, che è poi il seguito del ragionamento già venduto alla base: Biden è l’unico in grado di vincere contro l’ex presidente.

Sostenitori di Biden

 

Ci sarebbe poi la carta della Vicepresidente, Kamala Harris, a favore della quale Biden potrebbe abdicare. Harris è l’altra variante femminile, questa volta nel campo progressista, ma non è una vera opzione: è stata la candidata adatta per la vicepresidenza di Biden, quel tocco di gender e diversity che erano necessari per riattivare l’immaginario costruito con Obama, ma non è riuscita a dare una buona prova di sé, o almeno non è stata messa nelle condizioni di farlo. Il tema dell’immigrazione con il crescente aumento dei migranti al confine con il Messico, è stato un terreno scivoloso per lei. Biden tenterà di sfruttare il suo valore aggiunto simbolico per inaugurare la sua campagna nelle primarie con un discorso sul diritto all’aborto, uno dei veri temi di questa campagna, dopo la cancellazione di Roe v. Wade da parte della Corte Suprema.

Una delle possibilità, sebbene non una carta jolly, potrebbe essere quella di condividere maggiori responsabilità con la sua Vice, cercando di coinvolgere politicamente Harris e non solo di far immaginare gli elettori. Oppure, e questo rappresenterebbe un colpo di genio per i Dem che potremmo vedere solo nella serie ‘West Wing’ se girassero nuovi episodi: Michelle Obama. Ad oggi è solo un rumor, corroborato dalle visite degli ‘Obama’ nella sala Ovale e dalle dichiarazioni della stessa ex first lady, che ha detto di non riuscire a dormire la notte per il timore che Trump possa vincere di nuovo.

Ancora una volta, anche questa scelta, ci ricorda che persino la campagna del 2024 rischia di non vedere una donna candidata ma solo le donne come ‘un piano B’, che il voto giovane non interessa abbastanza ad alcun candidato, che forse la democrazia americana è davvero molto stanca.

 

 

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