Fra gli sviluppi collaterali della drammatica guerra in corso, è emersa anche l’ipotesi di aprire una specie di percorso fast-track per la candidatura (e in prospettiva l’adesione) dell’Ucraina all’Unione Europea. Sollevata indirettamente dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen in un appassionato intervento due settimane fa, e sollecitata apertamente da Volodymyr Zelensky, l’ipotesi si è già tradotta nell’ufficializzazione della candidatura ucraina (28 febbraio), subito seguita da quelle di Georgia e Moldavia. Già il 7 marzo gli ambasciatori dei 27 paesi UE hanno deciso di aprire il dossier, passandolo alla Commissione per le valutazioni di ammissibilità che le spettano, mentre giovedì e venerdì toccherà ai loro leader politici, che si riuniscono a Versailles per un summit informale che era programmato da tempo ma che, nelle circostanze attuali, ha assunto un’importanza straordinaria.
Le prime reazioni alla richiesta hanno già evidenziato alcuni ostacoli. Il processo di adesione all’UE è diventato, soprattutto dopo il cosiddetto ‘big bang’ del 2002, un percorso molto lungo e complicato, che comporta numerosi passaggi politici e amministrativi: dalla domanda all’accettazione della candidatura, per cominciare, passano di solito molti mesi, tra la valutazione della Commissione e l’approvazione della candidatura da parte dei Paesi membri, che deve essere unanime – così come tutte le fasi successive (apertura dei negoziati, chiusura di ciascuno dei 35 ‘capitolì), fino al varo del trattato di adesione di adesione vero e proprio (che va ratificato da tutti i parlamenti, compreso Strasburgo).
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Al di là dell’aspetto simbolico di un’eventuale procedura fast-track, peraltro del tutto inedita, è insomma difficile immaginare come possa rappresentare uno strumento di gestione della crisi in corso, che si misura in giorni e settimane, non mesi e anni.
In secondo luogo, c’è già una lunga lista di attesa per l’ingresso nell’Unione: senza contare la Turchia, i cui negoziati di adesione sono iniziati addirittura nel 2005 (con la Croazia, poi entrata nel 2013) e sono di fatto congelati da tempo, Montenegro e Serbia stanno trattando sui singoli capitoli, mentre Albania e Macedonia del Nord stanno ancora aspettando il via libera per l’apertura dei negoziati – bloccata al momento da una riserva della Bulgaria, succeduta alla Grecia nel complicare il percorso di Skopje. La Bosnia-Erzegovina, infine, ha presentato la propria candidatura sei anni fa, ma la situazione interna al paese non ha certo incoraggiato Bruxelles ad accelerare le procedure.
Vale la pena ricordare che la prospettiva di integrazione nell’UE per i paesi balcanici, in particolare, fu lanciata già nel 1999 – con il Patto di Stabilità per l’Europa sud-orientale – e proprio alla fine dei conflitti che avevano accompagnato la dissoluzione della ex Jugoslavia; e che la Slovenia, di gran lunga il più maturo fra i candidati della regione, ha dovuto comunque attendere otto anni dopo la candidatura prima di poter entrare (e la Croazia dieci).
Il fatto è che non sembrano esserci scorciatoie politiche al lungo processo di adattamento legislativo e amministrativo che l’ingresso nell’Unione attuale comporta. Per questi paesi – ed ancor più per i tre nuovi candidati – non è neppure pensabile una soluzione come quella adottata a suo tempo per Norvegia e Islanda, che sono sì fuori dall’UE ma pienamente integrate nel mercato unico e in Schengen: nel loro caso, infatti, l’ostacolo non sta(va) nella loro capacità ma nella loro volontà a far parte dell’Unione. A tutto questo va aggiunto che perfino l’esperienza compiuta negli ultimi anni con l’avvenuta integrazione dei paesi dell’Europa centrale non ha contribuito a facilitare nuove aperture, vuoi per i problemi manifestatisi nel caso di Romania e Bulgaria (impreparazione amministrativa, corruzione) vuoi per l’involuzione illiberale registratasi – dopo l’adesione – nel caso di Ungheria e Polonia. Il caso di Cipro, infine, ha evidenziato le complicazioni derivanti dall’integrazione di un paese con una questione territoriale irrisolta – senza contare, ovviamente, l’involuzione delle stesse opinioni pubbliche europee nei confronti dell’apertura delle frontiere. Perfino in Gran Bretagna, storicamente il paese membro più favorevole al continuo allargamento dell’Unione, l’ostilità nei confronti degli immigrati dall’Europa centro-orientale è stato uno dei fattori determinanti nell’esito del referendum su Brexit.
L’allargamento prima della Comunità e poi dell’Unione è stato uno dei principali strumenti di stabilizzazione e liberalizzazione del continente europeo – una sorta di politica estera e di sicurezza comune “con altri mezzi”, per parafrasare von Clausewitz. In particolare, l’allargamento a Sud negli anni Ottanta ha accompagnato e supportato la democratizzazione e la modernizzazione di Grecia, Spagna e Portogallo, così come l’allargamento ad Est degli anni Novanta lo ha fatto per i paesi usciti dall’orbita sovietica. Ma già l’apertura verso i Balcani ha cominciato a mostrare alcuni dei limiti di questo approccio, divenuto nel frattempo – anche in virtù della grande sviluppo dell’acquis legislativo e delle strutture amministrative necessarie per l’adesione – sempre più esigente e laborioso. Quando Jean-Claude Juncker, nel presentare il programma della sua Commissione nel 2014, esplicitò che non ci sarebbero state nuove adesioni all’Unione fino al 2020, ottenne il duplice effetto di indebolire la credibilità politica della prospettiva di integrazione e di frustrare gli sforzi riformatori nei paesi candidati – alcuni dei quali, fra l’altro, potrebbero ora vivere con disagio l’eventuale fast-track concesso a Ucraina, Georgia e Moldavia.
Per queste ultime, l’Unione aveva a suo tempo (2009) messo in piedi un ‘formato” ad hoc, la cosiddetta Eastern Partnership, che include(va) pure Bielorussia, Armenia e Azerbaijan. Ma anche questo tipo di partenariato ‘light’ è ormai saltato: la Bielorussia è tornata ad essere quanto meno un satellite di Mosca, mentre Armenia e Azerbaijan, oltre ad essersi combattute in Nagorno-Karabakh appena pochi mesi fa, non hanno alcuna intenzione di avvicinarsi ulteriormente all’UE. Per parte loro, Kyiv, Tbilisi e Chisinau hanno sì firmato alcuni anni fa con Bruxelles importanti Accordi di Associazione, ma presentano tutte – sia pure in misura diversa – gravi questioni territoriali irrisolte: la Transnistria per la Moldavia (dal 1992), l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale per la Georgia (dal 2008), la Crimea e il Donbass (dal 2014) per l’Ucraina – senza contare naturalmente i possibili tragici sviluppi della guerra in corso.
L’offerta di una procedura fast-track per la candidatura e una successiva adesione all’UE rischia insomma, in questo contesto, di rappresentare un poco una fuga in avanti, e perfino di avere effetti controproducenti. Da un lato, come alcune capitali hanno già segnalato, l’offerta potrebbe presto diventare una vuota promessa, dividendo i 27 e minando seriamente la credibilità dell’Unione, oltre a creare problemi con e per gli attuali candidati. Dall’altro, si può stare certi che Mosca non starebbe comunque a guardare, come del resto già accaduto nel 2014 quando Kyiv si apprestava a firmare l’accordo con Bruxelles. Per di più, l’eventuale membership dell’Unione ora comporta anche un impegno alla difesa collettiva (l’articolo 42.7 del trattato di Lisbona) che, almeno sulla carta, non differisce molto dall’articolo 5 della NATO – usato da Putin come presunto casus belli contro l’Ucraina. L’idea insomma che la prospettiva di integrazione europea possa essere più accettabile per Mosca di quella di adesione alla NATO – come era accaduto negli anni Novanta – non sembra più molto plausibile.
Che fare dunque? I capi di Stato e di governo dei 27 che si riuniranno a Versailles potrebbero riflettere su due punti. Primo, l’Unione ha bisogno di ridare al più presto credibilità e dinamismo al processo di allargamento, tanto più dopo Brexit: veti nazionali contro questo o quel candidato non sono più accettabili, e l’integrazione dei paesi balcanici non è più rinviabile, a quasi un quarto di secolo dalla fine dei sanguinosi conflitti in quella regione. È anche l’unica cornice in cui risolvere i problemi della statualità della Bosnia-Erzegovina e delle relazioni fra Serbia e Kosovo: di nuovo, Mosca non faciliterà certo le cose ma, nel voto all’ONU della settimana scorsa, Sarajevo e Belgrado hanno condannato l’aggressione russa all’Ucraina, a differenza di quanto accaduto nel 2014.
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Secondo, è altrettanto urgente immaginare una nuova forma di associazione e partenariato con quei paesi europei che vogliono ma non possono unirsi all’UE in tempi ragionevoli – per ragioni di capacità sistemica e/o sovranità territoriale – ma che hanno un bisogno esistenziale di essere riconosciuti e percepiti come parte della ‘famiglia”.
Se si può chiedere alla Commissione di proporre nuove soluzioni operative, anche in termini di supporto finanziario e umanitario, è essenziale che i 27 mostrino – come hanno appena fatto con le sanzioni contro Mosca e con la protezione temporanea concessa ai profughi ucraini – la determinazione politica di accoglierli al più presto in una nuova “casa comune”, magari a più piani, coinvolgendoli in tutte le attività e le iniziative che non esigono una membership formale. Ma il messaggio da Versailles deve essere chiaro e netto: la porta dell’Unione è aperta – agli ucraini, all’Ucraina, e a tutti gli europei minacciati dal revanscismo di Putin.