Un mondo piccolo, dalla Groenlandia all’Amazzonia

Il Climate Change non è uno slogan. Eppure ne sta assumendo tutti i contorni di superficiale grevità. Vittima di ondate virali sui social media, suscita un climax ciclico di sentimenti ansiogeni. A complicare il quadro c’è la velocità con la quale i temi inerenti al cambiamento climatico vengono sollevati, masticati e (mal) digeriti dall’opinione pubblica.

Due esempi recenti (che il declino della lingua italiana descriverebbe come “plastici”) sono eclatanti di questo cortocircuito: la Groenlandia e l’Amazzonia.

La Groenlandia – è sempre interessante tornare a guardare la cartina geografica – appartiene alla Danimarca nonostante l’isola disti migliaia di chilometri dalle sue coste continentali. Il paese scandinavo l’ha ricevuta in eredità dalle scoperte vichinghe e poi l’ha colonizzata a partire dal ‘700 insieme alla Norvegia. Dieci anni fa, Copenaghen ha concesso un referendum sull’autodeterminazione che consente a Nuuk forme di autonomia nazionale dalla lontana Danimarca.

Nuuk e la costa “temperata” della Groenlandia

 

E’ stato Donald Trump a rilanciare recentemente l’idea dell’acquisto dell’isola. Per la cronaca, una volta incassato il no da Copenaghen, il Presidente USA ha rinunciato alla visita prevista a settembre e quindi all’incontro con la primo ministro danese Mette Frederiksen, la quale da parte sua ha tenuto a sottolineare come la Groenlandia “non è danese ma appartiene ai groenlandesi.” Con evidenza, qui più linguaggi si mescolano, tanto che in un momento di autoironia, Trump ha anche pubblicato un fotomontaggio dove sull’immacolato paesaggio artico svettava uno dei suoi palazzi dorati e la rassicurazione che non sarebbe certo quello il suo piano per l’isola.

Ironia a parte, la corsa all’Artico è tutt’altro che un gioco. Gli idrocarburi “a disposizione” sotto il ghiaccio sono la mira esplicita. La Russia è la prima potenza – ma quando si mosse (agli esordi dell’era Putin) era una ex potenza o una potenza ancora convalescente – ad aver agito dando impulso a nuove spedizioni espansionistiche. La Cina ha la questione ben presente in agenda e gli Stati Uniti non possono quindi perdere terreno. Ma attenzione, perché il sentiero è stretto: dalla geopolitica alla fantapolitica il passo è troppo breve.

Il Grande Nord, infatti, interessa perché si è convinti che il cambiamento climatico stravolgerà a breve (si ragiona in decenni) il paesaggio artico, rendendo le sue acque facilmente navigabili, i suoi prati verdi e i suoi idrocarburi a portata di trivelle? E quindi la corsa al controllo di quelle acque internazionali sarebbe la conquista/spartizione formale di “spazi vitali” per le grandi potenze?

Se si guarda la scomparsa del ghiacciaio dell’Okjökull in Islanda (se non abbiamo già ritirato la cartina geografica l’Islanda divide proprio il Mare del Nord danese dalla Groenlandia), consumatasi negli ultimi trent’anni, l’impressione catastrofica sembra trovare conferma. Di segno opposto c’è invece chi s’improvvisa filologo di lingue norrene e così la Groenlandia, ossia l’isola verde, conterrebbe già nel nome la prova regina negazionista: mille anni fa, quando Erik il Rosso vi sbarcò e la battezzò così, la sua superficie era ricoperta di prati e non di ghiacci, per cui il cambiamento climatico sarebbe una fake news creata ad arte.

Sono entrambi approcci emozionali. D’altronde anche la comunità scientifica, che ha sempre l’onere di dover divulgare le proprie scoperte, appare troppo spesso costretta ad alzare l’asticella, il “tone of voice”, della propria comunicazione. Allarmismi che danno ai grandi della terra appena 12 anni per agire (la stima è quella del foro scientifico IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change, bibbia dell’ONU) pena la soglia di non ritorno, non invogliano nella quotidianità a una svolta green e sostenibile. Strizzano anzi l’occhio a un fatalismo decadente che allontana il consumatore, per fare un esempio maccheronico, dall’auto elettrica in favore di una rombante supercharged otto cilindri – visto che ormai tutto è perduto.

La Foresta Amazzonica è stata oggetto di ancor maggiore attenzione, sia perché il presidente Jair Messias Bolsonaro ha offerto ancora un nuovo motivo di fondate perplessità sul profilo dell’uomo pubblico, sia per l’uso di molte immagini riciclate a mezzo stampa per raccontare gli incendi che hanno scosso il mondo (per usare l’ennesima formula) nelle settimane scorse.

 

Mutuando una metafora cara agli ecologisti, l’Ambiente non è una pelliccia. Non si esibisce per poi accantonarla in un armadio quando non è più stagione. Ma è proprio questo il rischio. Tra le cause principali c’è l’inerzia della politica internazionale, che poi è la politica nazionale quando gioca in trasferta. L’Ambiente compare nei leziosi punti programmatici di qualsiasi campagna elettorale – accanto alla giustizia la scuola, l’istruzione… – o come enfatica mission in sede ONU, per poi venir sistematicamente declassato a ministero di secondo piano o a conferenza velleitaria (solo il medio periodo ci dirà se la Conferenza di Parigi del 2015, il celeberrimo COP21, sarà stato un successo o meno, memori del modestissimo bilancio del protocollo di Kyoto del 1997).

La riconversione dell’economia è certamente il punto dirimente, ma essendo di natura globale e quindi transnazionale contiene nella sua stessa definizione l’ostacolo. Gli interessi particolari sono ancora prevalenti su quelli generali ed è più pratico pensare di eludere Kyoto comprandosi la Groenlandia (o regalare soldi emergenziali a Bolsonaro) piuttosto che siglare un trattato bilaterale o addirittura un accordo sulle emissioni con 180 partner.

Noi non siamo forse migliori: lo facciamo nella nostra vita quotidiana quando scegliamo molte scorciatoie che ci rendono più efficace (così ci sembra) l’organizzazione della nostra già complessa giornata nei difficili ambienti metropolitani nei quali viviamo, o spesso sopravviviamo. Un post social serve da oppiaceo per la coscienza e buonanotte. Ma poi viene il risveglio.

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