Ormai, i Paesi del G7 – come anche la Cina che ne è fuori, la Russia che vorrebbe rientrare nel formato G8, l’India che aspira a un ruolo da protagonista nei prossimi decenni, o la Corea del Sud che si trova al centro di vecchie e nuove tensioni in Asia orientale – hanno ben compreso che Washington è, almeno sotto la guida di Donald Trump, un partner impossibile. Non vengono rispettati gli impegni assunti dall’amministrazione precedente (si veda il clima e l’Iran), non sono perseguibili negoziati multilaterali già avviati (si veda la Corea del Nord, che intanto continua col suo programma nucleare), non sono raggiungibili intese, formali o informali, che possano reggere l’urto del metodo decisionale a ritmo di tweet (si veda l’uso a tappeto delle sanzioni commerciali contro avversari strategici e alleati). Anche le alleanze e le istituzioni più consolidate ovviamente soffrono del disinteresse della Casa Bianca, mentre l’Unione Europea viene frontalmente attaccata sia come concorrente commerciale sia come bersaglio ideologico (si veda il reiterato incoraggiamento per una Brexit senza accordo). In aggiunta a tutto ciò, si devono comunque subire le conseguenze, talvolta non intenzionali, delle iniziative americane, poiché gli effetti a cascata delle scelte di una superpotenza sono inevitabili.
In breve, il quadro strategico che si fondava su una costante centralità diplomatica degli Stati Uniti è stato alterato profondamente, e non può bastare una conferenza-stampa senza insulti e minacce, qualche sorriso in più – o qualche tweet in meno – per ristabilire le condizioni preesistenti. L’amministrazione in carica non sembra neppure intenzionata a limitare i danni, o forse non è in grado di farlo visto che lancia con frequenza segnali contrastanti che confondono e spiazzano tutte le controparti; del resto, la disciplina non è certo un tratto tipico del team costruito (e oltretutto cambiato in quasi tutti i ruoli centrali) da Donald Trump. Il problema non è il declino della potenza americana, ma la rinuncia deliberata a fare da fulcro del sistema internazionale.
Su tale sfondo, si può meglio spiegare quello che, almeno in questo caso, non è stato un episodio di grandeur francese: invitare Zarif a Biarritz, quasi a sorpresa (pur senza fare, per ora, reali passi avanti sul dossier nucleare). E’ una mossa che rientra nel difficile processo di aggiustamento a un mondo in cui gli Stati Uniti hanno scelto di fare da soli, ma soprattutto di fare ben poco, al di là di dichiarazioni aggressive spesso seguite da mezze smentite. In sostanza, Trump è probabilmente disposto a far ripartire un qualche tipo di dialogo con il Presidente iraniano Rouhani, ma non sa come farlo senza “perdere la faccia”. La leadership di Teheran ha un problema analogo – e in effetti ben più drammatico, perché sconta gravi difficoltà economiche a causa delle sanzioni americane – e dunque ciò che serve è un quadro multilaterale: esattamente ciò che la politica di Washington ha quasi del tutto demolito dal 2016.
Il punto è che lo stesso Presidente Trump è ormai alla ricerca di vie d’uscita da alcuni vicoli ciechi in cui si è infilato, e deve trovarle in fretta vista la sua scadenza elettorale del novembre 2020: i dazi sulle merci cinesi rischiano di danneggiare imprese e consumatori americani mentre l’economia mostra segni di rallentamento; intanto, la politica estera in senso più ampio non offre motivi di ottimismo né tanto meno i facili successi mediatici a cui aspirava il Presidente – chi ricorda la grande svolta promessa al momento del primo incontro con Kim Jong-un, e perfino la soluzione del contenzioso israelo-palestinese affidata al genero Jared Kushner?
E’ il momento di ricercare su vari fronti soluzioni pragmatiche, parziali, non spettacolari ma funzionali a futuri progressi ulteriori. Questo G7 ha riflesso in modo plastico che, purtroppo, gli Stati Uniti di oggi rendono tutto ancora più difficile di quanto non sia già.