Un clima di pluralismo per un migliore saldo ambientale

 In una fase difficile e di potenziale svolta per l‘economia globale, è bene guardarsi da un rischio, spesso sottovalutato: il pensiero unico, fondato su soluzioni univoche, scelte una volta per tutte. Anche di fronte alle sfide della “transizione verde”, verso un modello di crescita e sviluppo migliore e più sostenibile di quello pre-pandemia, non si dovrebbe insomma pensare di aver trovato la ricetta, unica e finale; si dovrà continuare a sperimentare, adattando man mano ciò che funziona in circostanze che non rimarranno sempre identiche a quelle di oggi.

Questo è particolarmente vero per le politiche climatiche, che certamente richiedono pianificazione e visione a lungo termine ma che dovranno anche caratterizzarsi per una buona dose di flessibilità. La narrazione prevalente può diventare, in tal senso, una gabbia concettuale troppo stretta.

Un iceberg in via di scioglimento nel Mar Glaciale Artico

 

Una prima considerazione è legata alla “scommessa” su alcune fonti energetiche rispetto ad altre. In effetti, conviene tenere presente che tutte le fonti implicano un trade-off, in quanto richiedono altra energia per essere rese fruibili ed essere distribuite. Alcune fonti rinnovabili richiedono anche grandi spazi, e dunque hanno un tipo aggiuntivo di impronta ambientale. E’ per questo che il fattore decisivo è il mix energetico, sfruttando al meglio le specifiche caratteristiche di ciascuna fonte per assicurarsi sia la continuità delle forniture sia la sostenibilità economica degli approvvigionamenti.

Lo dimostra il dibattito in corso sul ruolo del gas naturale, cioè una risorsa già ampiamente disponibile grazie a un vasto sistema infrastrutturale, che può fare quantomeno da “ponte” verso le rinnovabili: per alcuni si deve guardare oltre fin da subito e non restare imprigionati da una fonte comunque problematica, ma altri osservano che il gas è assai meno inquinante del petrolio e ovviamente del carbone. Dunque, questione di gradazioni.

Conferma questo dilemma anche il crescente interesse per l’idrogeno – per il quale si punta a superare la sfida tecnica delle modalità di produzione (o meglio estrazione): ci sono in effetti molte “sfumature di idrogeno”, da quello cosiddetto nero (passando per il grigio, il blu e il viola) fino al tipo cosiddetto “verde” cioè estratto a sua volta da fonti a (quasi) zero emissioni.

Come si vede, le scelte da compiere, con i grandi investimenti che comportano, non sono secche come può sembrare a prima vista. Nel complesso, la diversificazione sembra comunque una strategia prudente e sensata.

 

In secondo luogo, focalizzarsi soltanto sulla CO2 (l’anidride carbonica) è probabilmente fuorviante. Intanto, la CO2 di per sé non è ovviamente un “inquinante” ma un ingrediente naturale dell’atmosfera terrestre, anche se certo contribuisce oggi in modo massiccio al riscaldamento globale e ad altri effetti negativi sul clima. E’ corretto in realtà puntare all’obiettivo delle “zero emissioni”, ma si deve farlo ricordando che il concetto-chiave è in effetti “zero emissioni nette”, cioè un equilibrio tra l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera e quella eliminata (ad esempio mediante la riforestazione o le tecniche di “carbon sequestration”).

La distinzione è molto importante perché consente di ragionare su un futuro energetico, industriale e dei trasporti che comunque immetta un certo quantitativo di anidride carbonica, ma che assicuri al contempo un saldo vantaggioso per l’ambiente. In sostanza, ciò significa che si dovrà sottrarre dall’atmosfera un quantitativo sufficiente a mantenere questo equilibrio, e anzi andare oltre per eliminare gradualmente la CO2 che è stata già immessa in passato.

In ogni caso, va insomma ricordato che non è l’anidride carbonica a minacciare il pianeta, ma il suo eccesso. Del resto, come sottolinea l’ultimo rapporto dello UN Environment Programme (UNEP), la riduzione delle emissioni di metano (CH4) – che sono in aumento e hanno raggiunto un picco globale nonostante i lockdown – sarebbe addirittura più rilevante per gli effetti quasi immediati sull’atmosfera. Il fatto è che il metano viene prodotto soltanto per il 34% dai combustibili fossili (in buona parte a causa di perdite che dunque sono anche un costo per i produttori); ben il 40% proviene dall’agricoltura e dall’allevamento (dove si potrebbe agire soprattutto riducendo il consumo di carne), e il 20% dallo smaltimento dei rifiuti. Come si vede, in questo caso le tecniche di abbattimento delle emissioni passano principalmente da forme di efficientamento e di mutamento delle abitudini (alimentari), prima ancora che di trasformazione radicale o nuove tecnologie.

Una centrale alimentata a carbone nelle pianure della Mongolia

 

In terzo luogo, serve molta attenzione ai modelli produttivi con cui si stanno sostituendo quelli attuali. L’esempio più rilevante è forse quello delle batterie al litio, che alimentano le auto elettriche: queste sono tecnicamente “a zero emissioni” nel loro ciclo di utilizzo, ma come ben noto non lo sono nelle fasi di produzione, e comunque pongono il problema complesso (e al momento non del tutto risolto) dello smaltimento e/o del riciclo. Non si può dunque guardare all’elettrificazione come soluzione sufficiente, perché è l’intera filiera della produzione e distribuzione di energia elettrica ad essere decisiva: di nuovo, ciò che conta è il saldo complessivo e dunque anche il modo di produzione di quell’elettricità, risalendo anche all’impronta ambientale che si colloca a monte dei processi produttivi.

Inoltre, alcune esperienze del passato non andrebbero dimenticate: vi sono quasi sempre effetti non intenzionali che possono derivare da misure di tutela ambientale, per cui ad esempio non è del tutto certo che i sacchetti di carta usati per sostituire quelli di plastica siano la soluzione migliore. E, ancora per restare alla plastica, il passato insegna che alcune fonti fossili hanno ridotto, invece che aumentare, l’impatto ambientale almeno in alcuni particolari settori: le plastiche hanno sostituito materiali come il legno, l’avorio o il carapace di tartaruga. In breve, ogni filiera produttiva, con la relativa filiera energetica, presenta vantaggi e svantaggi in termini ambientali.

 

Transizione e scelte politiche

Guardando al di là del fattore CO2 e alla riduzione delle emissioni nocive, c’è poi la questione globale dei modelli di crescita e sviluppo, che si intreccia con la tutela ambientale e con le regole per realizzarla. A fronte di “eventi estremi” legati al clima, come anche di cambiamenti più lenti e graduali, sappiamo che la variabile principale nel determinare il danno subito da una comunità (sia in termini economici che sociali e di vite umane) è la resilienza, e questa è quasi direttamente proporzionale al benessere economico. In altre parole, le comunità più ricche soffrono incomparabilmente meno di quelle povere – cosa che peraltro è drammaticamente evidente anche in caso di eventi come tsunami, terremoti o pandemie.

Ne deriva che il problema di fondo rimane lo sviluppo, parallelamente alla gestione del cambiamento climatico in quanto tale. E ciò pone il dilemma dell’allocazione delle risorse disponibili: quanto dedicare al miglioramento delle condizioni generali di vita, quanto alla “mitigazione” degli effetti climatici avversi, e quanto infine all’inversione dei trend attuali sul piano globale? Questi difficili trade-off non possono essere elusi, soprattutto se si intende ampliare il livello di consenso internazionale per le misure comuni in una chiave multilaterale: è indispensabile l’attiva collaborazione anche delle economie meno avanzate, che stanno infatti chiedendo con insistenza forme di compensazione per la rinuncia ai modelli di crescita più agevoli e meno immediatamente costosi.

La questione si pone con molta chiarezza rispetto all’elettrificazione massiccia – giustamente presentata come elemento centrale di una soluzione globale: il guaio è che per molti Paesi l’obiettivo più urgente è l’accesso a reti elettriche capillari e affidabili, indipendentemente dal modo di produzione dell’energia. Va ricordato che senza massicce dosi di energia distribuita in modo efficiente non c’è sviluppo, nel senso più elementare del termine. E’ un aspetto che complica la transizione “verde”, perché di fatto si può dire che qualsiasi fonte di energia è meglio di nessuna fonte, per chi ancora non ne ha.

Queste differenti prospettive si innestano su dati storici incontrovertibili: gravi danni ambientali sono stati già causati proprio dai Paesi che oggi cercano di imporre regole molto vincolanti a tutti gli altri. Ad esempio, a prescindere da qualsiasi giudizio politico sull’operato del Presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’enorme attenzione dedicata negli ultimi anni alla foresta pluviale amazzonica del Brasile è dovuta in gran parte al fatto che il resto del mondo è stato già massicciamente deforestato nel corso di secoli. La deforestazione sistematica è stata lo strumento principale per diffondere l’agricoltura, come poi l’urbanizzazione è stata decisiva per il decollo industriale e per l’innovazione tecnologica.

Deforestazione in Amazzonia

 

I vari passaggi – perfettamente noti a chiunque abbia una conoscenza anche solo superficiale della storia – hanno portato le società più economicamente avanzate a elaborare, tra l’altro, una visione e una coscienza ambientalista, e soprattutto a sviluppare le tecnologie che rendono oggi possibile la transizione sostenibile. Non si tratta qui di negare gli effetti negativi (potremmo chiamarli “collaterali”?) del modello capitalista o fordista di crescita, ma semplicemente di ricordare che gli strumenti attualmente a nostra disposizione non possono essere prodotti (e neppure concepiti) in un contesto economico privo di grandi capacità industriali. Le grandi infrastrutture (fisiche e digitali), e a maggior ragione quelle sostenibili, sono il frutto di un alto livello di know-how tecnologico-industriale, non certo di una logica di frugalità preindustriale o di sussistenza anticapitalista.

In sostanza, si pone una macro-questione di equità sociale ed economica, sia a livello globale sia all’interno (in modo potremmo dire trasversale) di ciascuna comunità che persegua una transizione verso la sostenibilità: chi è più ricco dispone di strumenti molto migliori per gestire la transizione e anche per adattarsi a quei cambiamenti (climatici o comunque di stili di vita) che non si potranno evitare del tutto.

In estrema sintesi, l’adozione di energie rinnovabili ma anche di regole per assicurare la “carbon neutrality” tende ad aumentare (almeno in una fase intermedia del processo di transizione) il costo di alcuni beni e servizi, e i costi aggiuntivi rischiano di scaricarsi sulle fasce più deboli della popolazione. E’ un punto centrale rimarcato, tra gli altri, da Bill Gates con le attività della sua Fondazione (la più grande al mondo per risorse finanziarie). Ci sono ormai numerosi movimenti, gruppi di attivisti, e studiosi riconosciuti (sebbene spesso controversi) che concentrano l’attenzione proprio su queste disparità, e dunque sull’esigenza di tenerne conto nell’attuare le politiche ambientali.

Si possono leggere ad esempio le analisi e le proposte del network globale “Climate Justice Now!”, o le americane “Climate Justice Alliance” e “Environmental Progress” e la britannica Ashden (che si presenta come una “climate change charity”), o di centri-studi come The Social Market Foundation e il Potsdam Institute for Climate Impact Research. Tutti, da prospettive diverse, sollevano istanze umanitarie e sociali, prima ancora che ambientaliste in senso stretto: il problema della “ingiustizia climatica” richiede anche misure redistributive o compensative sul piano internazionale, a complicare non poco le strategie ambientali.

E’ chiaro che un Paese come la Cina sfrutta strumentalmente il dato dell’eredità industriale dei Paesi più ricchi (la loro storica “impronta carbonica”) per ragioni di vantaggio geopolitico; ma è altrettanto vero che i progressi verso i modelli sostenibili non potranno avere successo se non offriranno anche alle economie in fase di rapida crescita, o comunque più povere, un realistico modello di sviluppo alternativo.

Giornata da “allarme rosso” ambientale a Pechino nel 2015

 

In effetti si è ormai consolidato un consenso molto ampio attorno all’idea che la Cina sia un caso a sé, e che Pechino non possa certo ergersi a portavoce del mondo “non occidentale”. Basti pensare che le emissioni cinesi di gas a effetto serra, secondo le stime più recenti del Rhodium Group (con cui Aspenia ha spesso collaborato), assommano oggi a più di quelle di tutti i Paesi OCSE combinati: il 27% nel 2019, contro l’11% degli USA e il 6,6% dell’India – per formare il “podio” mondiale. Naturalmente si deve considerare poi che, per ragioni demografiche, le emissioni pro capite cinesi sono ancora nettamente inferiori a quelle americane e degli altri Paesi OCSE, e questo prefigura ulteriori aumenti a fronte della traiettoria di crescita della Cina.

E’ imperativo dunque gestire i rapporti con Pechino alla luce di questa priorità: una difficile cooperazione va ricercata a prescindere da ogni altra considerazione geopolitica. Sembra averlo ben presente anche l’amministrazione Biden, per voce dell’inviato presidenziale per il clima, John Kerry, che ha dichiarato dopo la sua visita a Shanghai dello scorso aprile: “We have big disagreements with China on some key issues, absolutely. But climate has to stand alone”.

 

Economia e geopolitica del clima

Ragionare sulla “economia del clima”, e sulla nuova geopolitica dell’energia, significa esattamente tenere assieme i pezzi di un puzzle che ha senso soltanto nella sua interezza: le politiche orientate agli obiettivi climatici possono essere più o meno ambiziose, ma devono sempre tenere conto di alcuni vincoli politici e di alcune dinamiche economiche. Il maggiore vincolo politico è il consenso di una vasta maggioranza dell’opinione pubblica, per cui è rischioso imporre misure che ad esempio scarichino sui consumatori i costi di varie possibili forme di tassazione ambientale. La maggiore dinamica economica è quella dell’innovazione, senza la quale non ci saranno soluzioni a costi accettabili; proprio per questo, la logica del profitto non potrà mai essere eliminata dell’equazione ambientale, perché nulla può sostituire la creatività del settore privato che deriva dalla competizione sul mercato.

Su questo sfondo, meccanismi come la “carbon adjustment border tax”, che la UE prevede di introdurre dal 2023, sono incentivi importanti per spingere il settore privato e i consumatori a modificare i propri orientamenti; ma vanno calibrati con attenzione, se non si vuole rischiare di distorcere gravemente la concorrenza e addirittura ridurre la disponibilità di risorse finanziarie da investire nell’innovazione. Inoltre, andrebbero concepiti come interventi temporanei, da sostituire appena possibile con “standard globali”, proprio perché l’obiettivo di lungo termine è per sua natura globale.

C’è poi una grande questione geopolitica di tipo parzialmente nuovo. Lasciarsi alle spalle la dipendenza dalle energie fossili è molto attraente anche per ragioni strategiche, come dimostra il riassetto in corso nella politica estera americana a seguito della sostanziale indipendenza energetica ottenuta grazie allo shale gas&oil.

Al contempo, però, emergono legami di interdipendenza diversi dal passato. Un recente rapporto della International Energy Agency (IEA) sottolinea come si stiano profilando rischi di scarsità (e dunque volatilità dei relativi prezzi) non soltanto per le ormai famose “terre rare”, ma perfino per metalli ben più facili da estrarre come rame e alluminio – fondamentali per le tecnologie verdi e le grandi reti elettriche. Ne deriva, da parte della IEA, la raccomandazione di aumentare in misura massiccia gli investimenti nelle attività minerarie: forse una strana ironia della sorte, alla luce delle migliori intenzioni relative alla salvaguardia ambientale.

In ultima analisi, l’approccio al dibattito in corso dovrebbe sempre restare “plurale” e non ideologico: una sorta di pluralismo ambientale, che eviti di scegliere una singola soluzione per tutti i nostri problemi. Come insegna l’economia, un modo per limitare i rischi della dipendenza da una singola risorsa o da un singolo fornitore sta nel diversificare. E ciò vale anche per le soluzioni tecnologiche a una data sfida: meglio affidarsi a un ventaglio di tecnologie, magari neppure tutte all’avanguardia.

Il pluralismo sta anche nella prospettiva, che non dovrebbe essere soltanto incentrata sulle condizioni attuali di un gruppo minoritario di società molto ricche – in pratica i Paesi OCSE. E’ chiaro insomma che il governo di un Paese assai più povero avrà, legittimamente, priorità ben diverse. Soprattutto in questa ottica, la transizione economica verso un’economia ecologicamente sostenibile dovrà anche essere una transizione ecologica economicamente sostenibile.

Infine, non possiamo permetterci di sottovalutare le conseguenze geopolitiche del nuovo quadro energetico ed economico che si muove verso la sostenibilità: alcuni colli di bottiglia rimarranno, probabilmente collocati in luoghi diversi da quelli del sistema produttivo basato sul petrolio o sul carbone. E con essi rimarranno dei focolai di tensione e conflittualità. Una visione corretta del “saldo ambientale” dovrà tenere conto anche di queste voci di bilancio.

 

 

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