Un budget dell’eurozona: strumento della “sovranità europea” o spinta intergovernativa?

Il 16 novembre i governi francese e tedesco hanno formalizzato, in un breve documento, la proposta di costruzione di un bilancio dell’eurozona. L’obiettivo dichiarato è quello di fornire all’area euro uno strumento per assicurare stabilità. Come noto, gli stati dell’eurozona, non potendo disporre autonomamente della leva della politica monetaria e dello strumento del cambio, si trovano limitati rispetto agli altri stati dell’Unione nell’assicurare alle rispettive economie competitività e convergenza. Assicurare un più alto livello di competitività e fornire un supporto alle riforme strutturali: questi gli obiettivi perseguiti tramite l’istituzione di un bilancio dell’eurozona, capace di finanziare investimenti essenzialmente in ricerca e sviluppo, nell’innovazione e nel capitale umano. Un bilancio che potrà anche svolgere una funzione di stabilizzazione.

La proposta ipotizza questo strumento come “part of the EU budget“, facendo riferimento a basi giuridiche previste nei trattati. Un bilancio finanziato sulla base di “regular contributions by Eurozone Member States, collected and transferred to the EU budget on the basis of an intergovernmental agreement (IGA)”.

È dunque un accordo intergovernativo a dover determinare il modo in cui i singoli Stati membri dovranno eventualmente contribuire. Se i programmi da finanziare con il bilancio sono gestiti dalla Commissione europea, è però l’Euro summit (la riunione dei capi di stato e di governo dell’area euro) a definire la “Strategic guidance which would be operationalized by the Eurogroup on a yearly basis”.

Insomma, una guida intergovernativa per uno strumento che si vuole costruire come parte del bilancio europeo.

Da un punto di vista formale, la proposta individua come essenziale base giuridica l’articolo 175, paragrafo 3 del TFUE, nel quale viene stabilito che, ove risultano necessarie azioni specifiche al di fuori dei fondi (strutturali e di coesione), e fatte salve le misure decise nel quadro delle alte politiche dell’Unione, si possa a provvedere a tal fine tramite un regolamento da adottare con la procedura legislativa ordinaria. A questa base giuridica si associa, nella proposta franco-tedesca, quella prevista dall’articolo 136, che permette al Consiglio di adottare misure concernenti i soli Stati membri la cui moneta è l’euro. La proposta infine prevede – ed è questo l’aspetto che ha attirato in particolare l’interesse dei commentatori italiani – che i programmi approvati dalla Commissione possano essere finanziati con il bilancio dell’eurozona solo “if they pursue policies that are in accordance with their obligations under the European economic policy coordination framework, including fiscal rules”.

L’attenzione a questa condizionalità – che in verità non è nuova nella produzione normativa europea – non deve però distrarre dal prendere in considerazione il problema strutturale della proposta: il bilancio dell’eurozona, come disegnato, non può essere considerato una “linea” del bilancio dell’Unione. Il suo finanziamento è disciplinato da un accordo intergovernativo; dunque al di fuori dei trattati europei e delle regole sulla procedura del bilancio europeo. E le linee strategiche nell’erogazione dei finanziamenti – diremmo l’indirizzo politico – vengono definite da un’istanza fuori dei trattati: l’euro summit, che trova la sua disciplina generale – non a caso – nell’articolo 12 del Fiscal Compact. In questo quadro la Commissione finirebbe per svolgere un ruolo semplicemente amministrativo, ben diverso da quello che la essa svolge nella esecuzione del bilancio europeo.

Si poteva seguire un’altra via?

Scorrendo le proposte normative relative al nuovo quadro finanziario pluriennale presentate a maggio dalla Commissione europea troviamo due proposte di regolamento, che usano la stessa base giuridica della proposta franco-tedesca (l’articolo 175, paragrafo 3). La prima mira ad istituire un programma di sostegno alle riforme (COM (2018) 391) prevedendo 3 strumenti: tra questi uno strumento di convergenza (Convergence facility), per fornire un sostegno specifico e mirato agli Stati membri non appartenenti alla zona Euro, e uno strumento invece di sostegno finanziario per la realizzazione di riforme (Reform delivery tool). Un programma, quest’ultimo, che intende offrire incentivi per le riforme strutturali nei paesi membri. Si tratta di uno degli obiettivi cui dovrebbe essere destinato l’ipotizzato budget dell’eurozona. La seconda proposta (COM 2018/387) è invece espressamente destinata ai paesi dell’euro e ha quale obiettivo la stabilizzazione macroeconomica. La Commissione sarebbe così autorizzata a concedere assistenza finanziaria agli stati membri posti di fronte ad uno shock asimmetrico, sulla base di prestiti. Prestiti che possono essere erogati solo se lo stato rispetta rigorosi criteri (e dunque sulla base  di chiare condizionalità) e destinati a finanziare investimenti pubblici. Un accordo intergovernativo tra gli stati membri dovrebbe disciplinare un apposito fondo di sostegno alla stabilizzazione per la copertura del costo degli interessi dei prestiti concessi. Anche qui dunque si tratta di un accordo al di fuori dei trattati a definire le risorse (che serviranno a finanziare secondo la proposta solo i contributi in conto interesse). E’ la Commissione europea a gestire però il patrimonio del fondo, e soprattutto a stabilire i termini del sostegno.

Occorrerebbero certo – ed è anche la questione cruciale del dibattito odierno sul bilancio europeo – risorse ben superiori rispetto a quelle attualmente previste dalle due proposte di regolamento, se si volesse permettere a questi nuovi strumenti di svolgere efficacemente la funzione di convergenza e quella di stabilizzazione (“a fiscal stabilisation function should be sufficient in size”, ha affermato la Banca Centrale nel suo parere sulla proposta di regolamento del 9 novembre 2018 ri). Lo stesso disegno intergovernativo franco-tedesco, peraltro, non ha ancora una dimensione finanziaria quantificata, e tanto meno si vale di autentiche risorse proprie (come giustamente notato da Sergio Fabbrini sul Il Sole 24 ore del 24 novembre).

Le proposte di regolamento della Commissione europea si collocano in un quadro organico coerente con gli obiettivi della cosiddetta “Relazione dei 5 Presidenti” dell’estate 2015 sul completamento dell’Unione economica e monetaria.

La scelta sottesa al documento franco-tedesco è quella di andare avanti nel processo di integrazione europea, con un obiettivo a parole più ambizioso di quello contenuto nelle proposte della Commissione – la creazione di un bilancio dedicato della zona euro -, ma seguendo un percorso sostanzialmente al di fuori dell’equilibrio istituzionale definito dei trattati istitutivi dell’Unione: un percorso avviato con il trattato sul Fiscal compact e quello istitutivo del meccanismo europeo di stabilità (MES).

Si delinea così una governance nuova, guidata dall’Euro summit: un’istanza tutta intergovernativa, o forse sarebbe meglio addirittura dire “internazionale” e comunque esterna al quadro istituzionale dell’Unione; basti ricordare che le  riunioni di questo sono definite informali dallo stesso Fiscal compact che l’ha creato. Che così sia è dimostrato dalla difficoltà di ricondurre nel quadro giuridico dell’Unione proprio il Fiscal compact (operazione pure auspicata nell’articolo 16 del trattato stesso); e altrettanto deve dirsi del Meccanismo europeo di stabilità, la cui governance, anche nella prospettiva di una sua trasformazione in Fondo monetario europeo, è e resta strutturalmente legata a logiche intergovernative dove gli stati pesano sulla base del loro contributo finanziario.

Il processo di integrazione europea è andato avanti in modo spesso asimmetrico, anche usando accordi internazionali (si pensi al Trattato di Schengen) al di fuori dei trattati istitutivi dell’Unione oggi, e della Comunità prima.

La proposta franco-tedesca sul budget dell’eurozona, dopo e con il Fiscal compact ed il trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità, se da un lato si colloca in un percorso di ulteriore integrazione, dall’altro comporta un’ulteriore modifica  degli equilibri istituzionali a vantaggio dei governi (e dei rispettivi parlamenti nazionali, a partire dal Bundestag tedesco). A detrimento innanzitutto del ruolo della Commissione e conseguentemente del Parlamento europeo – (escluso quest’ultimo e marginalizzata la prima già oggi, ad esempio, dai meccanismi decisionali del MES).

Nel dibattito pubblico che si è aperto in vista delle prossime consultazioni europee di maggio, questa delicata partita istituzionale sembra non essere ancora presente.

Si parla di maggiore o minore integrazione, addirittura di sovranità europea (da ultimo il presidente Emmanuel Macron parlando davanti al Bundestag tedesco); ma che essa rischi di realizzarsi riducendo sostanzialmente le funzioni della Commissione e, parallelamente, dell’assemblea che rappresenta i cittadini europei (ove pure secondo il cancelliere Merkel “si sente battere il cuore della democrazia europea”) non appare chiaro.

Il ruolo della Commissione nella guida politica dell’Unione è forse la sfida più delicata che il parlamento europeo – chi ne fa parte e chi si sta impegnando per le prossime elezioni – ha oggi di fronte.

* L’autore scrive a titolo esclusivamente personale

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