Quando Chris Wallace, il veterano giornalista di Fox News, ha dato il via al terzo e ultimo dibattito televisivo del 19 ottobre tra Hillary Clinton e Donald Trump dall’Università del Nevada a Las Vegas, si pensava ci sarebbe stato più spettacolo. Come anche la location lasciava immaginare, ci si poteva magari attendere qualche colpo di teatro – uno di quelli a cui il candidato repubblicano ci ha abituato in questa lunga campagna elettorale.
E invece no: il clima da subito si è fatto serio, quasi grave, per diventare addirittura cupo in alcuni passaggi. In realtà, se si poteva addirittura prevedere che la stretta di mano finale “americana” di cortesia e rispetto reciproco non ci sarebbe stata, costante di tutto il dibattito è stata la freddezza, l’ostentata inimicizia personale che traspariva dai due protagonisti. Pochi, pochissimi sguardi tra loro: Trump e Clinton hanno quasi sempre guardato verso la telecamera, o si sono rivolti con gli occhi al moderatore.
Si è partiti parlando di Corte Suprema, tema tra i più caldi: il prossimo Presidente nominerà un altro o forse altri due o tre Giudici (Justice) della Corte. La scelta fatta da Barack Obama di Merrick Garland al posto del conservatore Scalia, scomparso recentemente, è bloccata da marzo dal veto del Senato a maggioranza Repubblicana; e molti dei restanti otto Justice della Corte sono ormai in età molto avanzata. Una ragione in più per seguire l’8 novembre anche i risultati del Senato, dove i Democratici hanno una realistica chance di riconquistare la maggioranza.
La Corte Suprema americana è un organo altamente politicizzato per quanto riguarda la filosofia legale o l’ideologia alla base di molte delle sue sentenze: nominare due o tre nuovi membri significa dare a quest’organo un profondo indirizzo. Le conseguenze si faranno sentire in ambiti sensibili come le libertà civili, il controllo delle armi, fino al controverso finanziamento delle campagne elettorali. Il regolamento su quest’ultimo tema fu stravolto dalla famosa sentenza “Citizens United vs FEC”, che ha permesso donazioni senza limiti, citata proprio dalla Clinton durante il dibattito come decisiva sia nella scelta dei nuovi membri che nel correttivo che questi dovranno dare in materia.
Ma la vera novità dell’ultimo dibattito, rispetto ai due precedenti, è stata che stavolta Trump ha cercato di impersonare di più “il candidato repubblicano”. Ha dunque sostenuto i classici temi cari alla tradizione conservatrice: meno tasse, meno intervento pubblico, diritto alle armi, stop all’immigrazione, “diritto alla vita” sui temi etici, e guerra come opzione a volte perfino privilegiata per difendere gli Stati Uniti. In particolare, Trump si è lanciato in una difesa del 2° Emendamento, quello sulla libertà di portare armi da fuoco, che ritiene “sotto pressione” per la volontà del duo “Obama-Clinton” di cancellarlo, tradendo così lo spirito dei padri costituenti e la sicurezza degli americani. Inoltre, ha riproposto le sue ricette contro l’immigrazione clandestina e per la restrizione del diritto di aborto.
La Clinton ha replicato accusando Trump di essere il “rappresentante della lobby delle armi”, ha riaffermato che il diritto previsto a livello federale dell’aborto non deve essere toccato e che l’immigrazione clandestina deve essere contrastata, ma non affidandosi a deportazioni di massa o alla costruzione di muri. Passaggio durissimo è stato quello con l’accusa al governo russo di servirsi di hacker per interferire nella campagna elettorale, con l’obiettivo di favorire Trump e avere un “presidente marionetta”.
Da qui in poi è stata una discesa agli inferi, con il solito festival di attacchi personali: la Clinton rimprovera Trump di essere inadatto al ruolo a cui aspira, di spingere gli americani alla violenza, di disprezzare i disabili, i giudici di origine messicana, le giornaliste e di offendere ripetutamente le donne. Trump dal canto suo accusa la Clinton di essere una falsaria e una bugiarda. Lo scambio di accuse è stato poi esteso alle reciproche fondazioni a scopo benefico (“charities”).
Forse per scaldare i Millennial e la base più liberal del Partito Democratico, arriva un momento di celebrità anche per Bernie Sanders. Il senatore del Vermont viene citato dalla Clinton per assestare un colpo significativo: rivolgendosi a Trump, la candidata ha ricordato che “Sanders, quando ha deciso di sostenermi, ha detto che sei la persona più pericolosa che possa correre per la presidenza. Credo abbia ragione”.
Probabilmente l’unico punto che Trump riesce a segnare a suo favore, anche perché ha gioco facile vista la situazione internazionale, è sulla politica estera. La sua critica è risultata efficace quando ha parlato dell’insufficiente sforzo degli alleati NATO in termini di risorse, e dicendo che anche alleati come Arabia Saudita, Giappone e Corea del Sud devono pagare un contributo maggiore a fronte dei benefici che ricavano dalle garanzie di sicurezza fornite degli Stati Uniti. Inoltre, ha accusato Hillary Clinton e Obama di prendersela con Vladimir Putin solo perché li ha ripetutamente beffati su tutti gli scenari e ha sottolineato che la strategia americana in Siria e in Iraq doveva essere definita in maniera più precisa – pur senza fornire alcun dettaglio, a sua volta.
Il candidato Repubblicano ha poi ripetuto come un mantra per tutta la serata un concetto, esplicitato anche nell’appello finale al voto: una vittoria della Clinton equivarrebbe ad altri quattro anni di Obama. Dal canto suo, la candidata democratica non ha fatto nulla per dissociarsi dal presidente uscente – salvo prendere le distanze in politica estera, più precisamente con la proposta di una no-fly zone sulla Siria. Anzi: incalzata dal moderatore, che definiva le sue proposte in economia troppo simili allo “stimulus” di Obama del 2009 – secondo Wallace il provvedimento ha causato la crescita economica più bassa dal dopoguerra – la Clinton ha risposto a muso duro che proprio con lo “stimulus” Obama ha salvato l’economia americana, e questo purtroppo ancora non gli viene riconosciuto.
Il dibattito si è chiuso con gli appelli al voto: Trump con il suo motto Make America great again, a cui appunto è stato associato l’invito a evitare un terzo mandato “di Obama”. E Clinton in versione ecumenica, rivolta a tutti: elettori democratici, indipendenti e repubblicani che non si riconoscono in Trump.
Di questa anomala campagna elettorale rimarrà però certamente agli annali il “I’ll keep you in suspense”, pronunciato da Trump in relazione alla sua accettazione di un eventuale risultato elettorale sfavorevole. Il tycoon newyorchese, che per tutto il dibattito aveva mantenuto l’aplomb da candidato presidenziale, con questa dichiarazione compie un (ulteriore) grave passo rispetto alle consuetudini del sistema istituzionale americano. Arrogarsi il beneficio del dubbio in questo caso frantuma la regola della reciproca correttezza, seguita perfino da Al Gore e dai Democratici nel 2000, quando le prove delle irregolarità a favore di George W. Bush in Florida erano evidenti – e quando comunque i dubbi sulla regolarità del voto furono espressi dopo “election day”, non certo prima. Con questa ultima irresponsabile giocata Trump sembra voler sottintendere che, comunque vada il voto, Hillary Clinton non avrà mai la legittimità per governare. Le elezioni dunque, è il sinistro messaggio, non finiranno l’8 novembre: sono in molti già a crederlo, data la grande frattura che attraversa le due Americhe.
In conclusione, per gli analisti politici, gli istituti demoscopici americani e gli osservatori esterni, il dibattito non è servito né a dare il colpo del ko a Trump, né a riaprire i giochi. Si è semmai rafforzata la percezione che già prima circolava, ormai largamente diffusa negli Stati Uniti, che Trump non possa vincere. Mancano ormai pochi giorni per sapere se sarà davvero così.