Ucraina e Iran: opportunità e “terzietà” per le monarchie del Golfo

Come già accaduto con l’invasione russa dell’Ucraina, anche la crisi iraniana potrebbe trasformarsi, per le monarchie del Golfo Persico, in un’opportunità. Soprattutto nel rapporto con gli alleati internazionali storici: Stati Uniti e Paesi europei. Infatti, gli Stati della regione (innanzitutto il Qatar) sono per gli europei in cima alla lista dei fornitori energetici alternativi a Mosca, tra accordi già siglati e intese preliminari. L’invasione russa dell’Ucraina è stata anche l’occasione, per i governi di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Qatar, di ribadire, tra equilibrismi e ambiguità, l’irrevocabilità economica e strategica della scelta multipolare in politica estera.

D’altro canto, la percezione della minaccia proveniente dall’Iran è assai cresciuta a Washington e soprattutto a Bruxelles: forniture di droni alla Russia, violenta repressione interna delle proteste contro la Repubblica Islamica e arricchimento dell’uranio al 60% in due impianti (Fordow e Natanz) sono le tre dinamiche simultanee che contribuiscono ora ad avvicinare le posizioni euro-atlantiche a quelle – non prive di distinguo – delle monarchie del Golfo su Teheran. Accelerando convergenze strategiche, in particolare sul tema della sicurezza aerea e marittima. Di sicuro, le due crisi – quella ucraina e quella iraniana – stanno incidendo, seppur da premesse profondamente diverse, nelle relazioni di politica estera di Riad, Abu Dhabi, Doha e delle altre monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).

 

Arabia Saudita e Bahrein: “gioco forte” sul piano internazionale, prudente su quello regionale

L’Arabia Saudita sta politicamente utilizzando la guerra in Ucraina per mostrare la propria forza economica sul piano internazionale. Pur condannando i referendum russi per l’annessione delle regioni ucraine occupate, il principe ereditario (e ora anche primo ministro) Mohammed bin Salman Al Saud continua a dialogare con il presidente russo Vladimir Putin, nonché con Kiev. Riad ha mediato con successo la liberazione di una decina di prigionieri stranieri in Ucraina (due americani, cinque britannici, un marocchino, uno svedese e un croato), poi trasferiti dalla Russia proprio in Arabia Saudita. Nonostante il pressing degli Stati Uniti, i sauditi hanno tenuto il punto sulla produzione petrolifera dell’OPEC, rifiutandosi di aumentare la produzione, e soprattutto accordandosi su questo con la Russia nel cartello OPEC Plus.

 

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In più, Riad starebbe per ospitare la visita del presidente cinese Xi Jinping: un appuntamento che sottolinea la solidità della collaborazione economica tra Arabia Saudita e Cina, nonché tra Pechino e la regione del Golfo. Insomma, i sauditi continuano a giocare su tutti i tavoli internazionali, enfatizzando le alleanze parallele fin qui perseguite. Invece, rispetto alla crisi iraniana, Riad sembra preferire il “freno a mano”, dopo anni di forti tensioni con Teheran e i suoi alleati, anche “per procura”, nell’intero Medio Oriente (particolarmente acute in Siria e in Yemen).

Il regno saudita e quello bahreinita sono gli unici stati del CCG a non avere, dal 2016, un proprio ambasciatore a Teheran. Qualcosa però si è mosso. Dal 2021, i sauditi hanno avviato colloqui diretti con gli iraniani in Iraq (poi sospesi), nell’ambito di uno sforzo di de-escalation regionale che ha preso forma nell’ultimo biennio. Ora, dinnanzi alle crescenti proteste contro  le autorità della Repubblica Islamica e ai segnali preoccupanti di Teheran su nucleare e attacchi asimmetrici, la leadership saudita sceglie il profilo basso: la consegna è il “silenzio”, con nessun cedimento (pubblico) alla “schadenfreude, la “gioia” per le difficoltà attraversate dal governo avversario. Riad vuole prima capire che direzione prenderanno le rivolte. E, nel caso si trasformino davvero in rivoluzione, quale esito essa avrebbe sul sistema di potere di Teheran. In ogni caso, l’Arabia Saudita lavora da mesi a una coalizione di Stati arabi, più Israele, per rafforzare e integrare il coordinamento militare aereo nella regione, con il placet statunitense. Il Bahrein, dopo gli Accordi di Abramo, ha persino siglato un patto di difesa con Israele nel 2022.

Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz (destra) e il ministro della Difesa del Bahrein Abdullah Bin Hassan Al Nuaimi alla firma dell’accordo di difesa tra i due Paesi, nel febbraio 2022.

 

Emirati Arabi Uniti e Kuwait: dialogo e rilancio dei rapporti con Teheran

Nei rapporti con Russia e Stati Uniti, gli Emirati (EAU) hanno fin qui adottato una postura simile ai sauditi: equilibrismo e mediazione. Dialogo sia con Mosca che con Kiev, addirittura il viaggio del presidente Mohammed bin Zayed Al Nahyan a San Pietroburgo per incontrare Putin e discutere di de-escalation in Ucraina. Poi la notizia non smentita di un incontro ad Abu Dhabi fra emissari russi e ucraini per pianificare un nuovo scambio di prigionieri, legandolo alla ripresa dell’export di ammoniaca (per produrre fertilizzanti) dalla Russia verso Africa e Asia via Ucraina. All’inizio dell’invasione, l’astensione degli EAU in Consiglio di Sicurezza ONU (di cui sono membri non permanenti per il biennio 2022-2023) sulla risoluzione che condannava l’invasione russa aveva irritato Washington. Poi però dagli Emirati sono arrivati i voti contrari alla posizione russa in Assemblea Generale, sull’invasione e sui referendum d’annessione – anche se si sono astenuti sulla Risoluzione di esclusione della Russia dal Consiglio per i Diritti Umani.

Con l’Iran, gli emiratini corrono più veloci dei sauditi, complice anche la tradizionale consuetudine commerciale e umana fra l’emirato di Dubai e Teheran. Infatti, gli EAU hanno scelto di riannodare i rapporti diplomatici con la Repubblica Islamica, proseguendo così il percorso iniziato nel 2019, dopo gli attacchi di matrice iraniana alle navi commerciali al largo delle coste emiratine. Lo scorso agosto, gli ambasciatori di EAU e Kuwait sono tornati a Teheran (mancavano dal 2016); prima, il ministro degli Esteri iraniano aveva visitato Abu Dhabi in occasione delle esequie del presidente. In novembre, a proteste in corso, i due ministri degli Esteri hanno avuto un colloquio telefonico: ci sarà un incontro formale tra uomini d’affari dei due Paesi.

 

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La federazione emiratina ha definito “stabili e dinamiche” le relazioni con l’Iran. Al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite (24 novembre), gli emiratini si sono inoltre astenuti sulla mozione che, condannando la repressione delle proteste iraniane, istituisce una missione indipendente per investigare sulla violazione dei diritti umani.

 

Qatar: il gas come facilitatore regionale e internazionale

Nel contesto della guerra in Ucraina, il Qatar sta fin qui riuscendo a bilanciarsi fra i tre poli del sistema politico-economico mondiale: Washington, Pechino, Mosca. Doha ha però un asso nella manica: il gas. Nel 2022, l’emirato ha rafforzato l’alleanza con gli Stati Uniti (che lo hanno designato major non-NATO ally e accolto nel Ukraine Defense Contact Group a conferma della linea più orientata verso Kiev tra i membri del CCG), ha consolidato ed espanso le relazioni energetiche con i paesi europei (Germania, Francia, in misura minore Italia) e con la Cina (Pechino ha appena siglato un accordo di approvvigionamento di GNL per ventisette anni), senza tuttavia deteriorare troppo i rapporti con la Russia, di cui è il naturale concorrente gasifero.

Ma il buon vicinato con l’Iran non è mai stato in discussione: Doha e Teheran condividono la proprietà del giacimento di gas offshore (North Dome/South Pars) la cui già programmata espansione permetterà a Doha di soddisfare molte delle nuove richieste di export. L’Emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani ha visitato l’Iran lo scorso maggio auspicando un’espansione della cooperazione. Doha ha ospitato colloqui fra statunitensi e iraniani – ovviamente mediati dagli europei – quando la scorsa estate una ripresa dell’accordo sul nucleare era ancora un’opzione sul tavolo. Anche il Qatar, come gli EAU, si è astenuto al Consiglio Diritti Umani dell’ONU sulla mozione di condanna all’Iran.

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi in visita in Qatar nel febbraio 2022.

 

Oman: la politica della discrezione

Per il Sultanato, le crisi regionali e internazionali non sono sinonimo di rottura, ma di terzietà: è questa la scelta politica che Muscat ha ribadito, con i gesti e soprattutto con i silenzi, proseguendo le relazioni diplomatiche con Russia e Iran. L’Oman è, tra le monarchie del Golfo, il paese che è rimasto più defilato rispetto all’invasione dell’Ucraina, anche se la discrezione è un tratto caratteristico della sua diplomazia. Il ministro degli Esteri russo si è recato a Muscat nel maggio 2022. Con l’Iran il dialogo non è mai cessato. Innanzitutto c’è il dossier sul nucleare e poi la sicurezza marittima dello Stretto di Hormuz nonché del Golfo dell’Oman, già teatro di intermittenti attacchi a navi commerciali come quello che ha colpito una petroliera di proprietà israeliana (novembre 2022) attribuibile, secondo gli Stati Uniti, all’Iran.

 

Minacce, sicurezza, cooperazione: le prospettive per il Golfo

Di fronte alle crisi internazionali (Ucraina) e regionali (Iran), le monarchie del Golfo stanno esprimendo politiche estere piuttosto convergenti caratterizzate – come sempre però – da sfumature nazionali. Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno intensificato gli sforzi di mediazione, su temi specifici, tra Russia e Ucraina; Qatar, Emirati Arabi e Oman rilanciano o mantengono relazioni cooperative con il vicino Iran. Per le monarchie del Golfo, trasformare la crisi iraniana in un’opportunità significa rafforzare l’alleanza di sicurezza e difesa con gli statunitensi, nonché la cooperazione con gli europei. Aspettando di capire l’evoluzione delle rivolte iraniane e, soprattutto, della reazione politica e regionale delle autorità di Teheran.

Sulla questione delle minacce aeree (missili e droni), l’intensificazione dei rapporti militari fra Russia e Iran sta facendo nascere una nuova consapevolezza nella politica americana e soprattutto in quella europea. Gli Stati Uniti hanno annunciato che la Task Force 59 presso la V Flotta USA in Bahrein avrà a disposizione più di cento droni di superficie e “subsurface” entro un anno: saranno capaci di comunicare e operare con gli alleati, per fronteggiare le minacce regionali. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha scandito, dal palco del Manama Dialogue 2022 (Bahrein), che i droni iraniani che la Russia sta utilizzando contro l’Ucraina sono gli stessi con cui gli houthi yemeniti (sostenuti dall’Iran) attaccarono quattro volte Abu Dhabi nel gennaio-febbraio 2022, uccidendo tre persone alla vigilia della guerra contro l’Ucraina. Non è certo una scoperta, ma suona ora come una presa di coscienza, resa necessaria dalla nuova centralità energetica del Golfo per Bruxelles. Von der Leyen ha quindi dichiarato che “vogliamo una cooperazione più stretta in tema di sicurezza marittima”.

Per le monarchie, l’obiettivo è quello che Anwar Gargash, già ministro degli Esteri emiratino, oggi consigliere del presidente, ha apertamente avanzato: un accordo di sicurezza con gli Stati Uniti “chiaro, codificato e non ambivalente”. Quasi un déjà vu dell’obiettivo, mai raggiunto, del 2015, quando la presidenza Obama (con la formula del 5+1, cioè Stati Uniti e gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, più la Germania) firmò il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) con l’Iran. Perché gli Emirati Arabi – ma in questo caso l’aspirazione è condivisa da tutte le monarchie del Golfo – vogliono continuare a essere alleati speciali degli Stati Uniti per la sicurezza. Anche se non intendono più essere i loro partner esclusivi per l’economia, trovandosi politicamente a proprio agio nel mondo multipolare.

 

 

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