Trump, la Nord Corea e l’Iran: l’arma spuntata delle sanzioni

Comprensiva coi nord coreani, inflessibile e minacciosa con gli iraniani, sembra proprio che l’Amministrazione Trump usi due pesi e due misure nei confronti dei Paesi che costituiscono da decenni per ogni presidente americano una fonte di infinite preoccupazioni. Da un lato infatti Donald Trump ha dato l’avvio all’ormai consolidata pratica degli incontri al vertice con il presidente nord coreano Kim Jong-un (ne sono già stati organizzati tre, e un quarto dovrebbe essere in cantiere). Dall’altro ha denunciato unilateralmente l’accordo raggiunto dal suo predecessore con Teheran e lascia aperta la porta dell’opzione militare.

La doppia strategia di Washington

In realtà, la diversità del quadro strategico in cui i rapporti degli Stati Uniti con la Corea del Nord e l’Iran si inseriscono è tale da rendere difficile ogni comparazione. Ma su entrambi i fronti Trump nella sostanza si è mosso in modo analogo, usando come punto di riferimento la strategia della “massima pressione”, che non era solo il ribaltamento retoricamente muscolare della “pazienza strategica” di Barack Obama. La “pressione” doveva essere declinata secondo la logica isolazionistica dell’America first. Quindi la minaccia da ostentare poteva essere militare, perfino nucleare, ma quella da mettere in pratica diventava solo economica. Con coreani e iraniani, quanto a durezza nell’imporre sanzioni e nel rifiuto di addolcirle, almeno finora Trump è stato imparziale. Ha tenuto coerentemente fede alla sua interpretazione della massima pressione, mentre l’opzione militare si è trasformata, oltre che in vari bluff, in un business generato dal riarmo di paesi come Arabia Saudita e Giappone.

La strada diversa poi presa dalle relazioni degli Stati Uniti con Teheran e Pyongyang negli ultimi 18 mesi dipende, oltre che dalla fisionomia geostrategica delle due crisi, dalla struttura interna di Iran e Corea del Nord. Difficile valutare quanto abbia contato la mobilitazione politica e psicologica legata alle Olimpiadi invernali del febbraio 2018, ma in sostanza Trump ha trovato un’ottima sponda in Kim mentre a Teheran non poteva trovare interlocutori così facilmente disponibili a cavalcare una pacificazione basata su buoni rapporti bilaterali.

Un gruppo di politici iraniani brucia la bandiera americana nel Parlamento di Teheran (9 maggio 2018), dopo l’annuncio di Trump dell’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare

 

Su questo punto Pyongyang e Teheran sono agli antipodi. Kim, a differenza del presidente Hassan Rouhani, non deve preoccuparsi del dissenso interno o comunque di gruppi di potere che spingono verso altre direzioni. Non teme sgambetti come quello che, secondo alcuni analisti, hanno teso nelle scorse settimane al presidente iraniano i Guardiani della rivoluzione organizzando l’attacco missilistico contro installazioni petrolifere saudite che ha bloccato ogni abbozzo di dialogo tra Washington e Teheran.

Come suo padre e suo nonno, Kim persegue un trattato di pace e non aggressione con gli Stati Uniti, snobbando intanto ogni intesa diretta con la Corea del Sud. Dunque l’apertura di credito datagli da Trump, sostanzialmente senza pretendere in concreto nulla in cambio, è un reale successo per lui, tanto più che in questo modo si svincola dalla dipendenza (sia pure mai totale) dalla Cina. Il cambiamento di situazione è stato messo in evidenza dalla visita ufficiale compiuta in giugno da Xi Jinping a Pyongyang; questa è suonata quasi come una venuta a Canossa del leader cinese, che fino a quel momento aveva preferito non mettere piede in Corea del Nord proprio per mostrare di non gradire metodi di governo e obiettivi del regime, armi nucleari in primo luogo.

Per l’Iran è stato quantomeno possibile, seppure molto complicato, negoziare un accordo con gli Stati Uniti e l’Europa come quello del 2015 che ha portato al congelamento delle attività nucleari in cambio della abolizione delle sanzioni. Ma ben diverso – ovvero impossibile – è accettare un processo di avvicinamento che capovolga tutta una struttura ideologica, quella del Grande Satana e delle responsabilità americane riguardanti la protezione di Israele.

Problema, quello di Israele, che ovviamente condiziona anche Trump, seppure non necessariamente la sua tattica negoziale. Infatti, a riprova che anche nella metodologia diplomatica il presidente americano non fa molta distinzione tra Estremo e Medio Oriente, è circolata voce, in parallelo col licenziamento del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton il 10 settembre, che alla Casa Bianca si sia cercato di organizzare al Palazzo di Vetro un incontro al vertice con Rouhani secondo la logica della Realpolitik di Trump che, a differenza dall’estremismo dei “superfalchi”, tende a tenere sempre aperta la porta della trattativa, possibilmente sfruttando gli effetti benefici della sorpresa (idea caduta per l’attacco in Arabia Saudita). Poi resta la differenza di fondo tra Corea del Nord e Iran: non esiste a Washington una lobby ostile alla prima mentre ce n’è una, potentissima, ostile alla Repubblica islamica in nome della difesa di Israele.

Sanzioni a doppio taglio

E’ probabile che Trump abbia deciso di denunciare l’accordo del 2015 e ripristinare le sanzioni per dimostrare la sua diversità nei confronti di Obama più che per compiacere la lobby anti-iraniana. In ogni caso ha sopravvalutato la forza di persuasione delle sanzioni e per ora i risultati delle sue scelte sono stati nulli e controproducenti. L’Iran ha ripreso ad arricchire l’uranio pur continuando a dichiarare che suo obiettivo non è dotarsi di armi atomiche. Non potendo inasprire oltre le sanzioni, Trump ha riavviato le sanzioni secondarie incurante del fatto che in tal modo crea seri danni economici a Paesi amici, segnatamente quegli Stati europei che vorrebbero tenere in vita l’accordo del 2015 e che in teoria avevano perfino elaborato una procedura anti-sanzioni che non osano mettere in pratica.

E la perdita di coesione di amicizie e alleanze si è subito vista quando la Casa Bianca, ogni volta che cresceva la tensione nel Golfo Persico, ha proposto iniziative militari in chiave anti-iraniana appellandosi ora alla sacralità della libertà di navigazione ora al più profano burden sharing. Perfino l’Australia, che ha sempre seguito gli Stati Uniti in qualsivoglia loro avventura militare, ha tenuto un profilo bassissimo di fronte alla cosiddetta “Operazione sentinella” lanciata a giugno. Il Giappone, altro alleato fedelissimo e desideroso di ampliare le sue responsabilità strategiche, ha preferito prendere tempo. Quanto all’idea di creare una sorta di coalizione dei volenterosi che per contenere le ambizioni dell’Iran riproduca lo schema della prima guerra del Golfo e ottenga il benestare del Consiglio di sicurezza dell’ONU, quindi anche della Cina e della Russia, è difficile che possa concretizzarsi. Pechino e Mosca sono su tutt’altra lunghezza d’onda. L’Iran per loro resta un partner prezioso.

Con la Corea del Nord almeno qualche risultato è stato ottenuto dopo l’incontro di Singapore, il primo vertice con Kim del giugno 2018: la Corea del Nord non ha più effettuato test atomici né ha lanciato missili balistici intercontinentali. Insomma ha cessato di essere un pericolo diretto per la sicurezza degli Stati Uniti – i numerosi test degli ultimi mesi, sfociati il 2 ottobre nel lancio di un SLBM denominato Pukguksong-3 da un sommergibile situato nelle acque prospicienti la città di Wonsan, definito dalla stampa asiatica il più provocatorio da quando sono iniziati i colloqui Trump-Kim, hanno pur sempre riguardato solo missili a breve e medio raggio che non possono raggiungere il territorio americano. Letta in questi termini, la diplomazia della Casa Bianca può dirsi vincente. Ma vincente solo considerando quello il primo piccolo passo di un pur lungo cammino che conducesse alla denuclearizzazione della penisola. Invece dopo quel primo passo nulla è stato compiuto.

Il lancio del Pukguksong-3

 

Intransigenza e stallo

Trump è rimasto intransigente, sulla falsariga della crisi iraniana, pretendendo che la Corea del Nord procedesse rapidamente e significativamente verso lo smantellamento del suo programma nucleare prima di ricevere delle “ricompense” (leggi riduzioni delle sanzioni): da ciò è derivato il fallimento del secondo vertice, quello di Hanoi del febbraio scorso. Non è bastato in sostanza che dal campo multilaterale, quello della grigia e fallimentare trattativa nel formato “a sei” (Six Party Talks) protrattasi dal 2002 al 2008, si fosse passati ad un negoziato bilaterale, gradito a entrambe le parti, con sorrisi e strette di mano.

Kim dopo Hanoi ha condizionato ogni concessione, grande o piccola che fosse, alla fine o a una significativa riduzione delle sanzioni. Non ha nascosto di essere tutt’altro che soddisfatto, tanto è vero che chiede, pur sollecitando nuovi incontri, “decisioni sagge e coraggiose” da parte americana, insomma un cambiamento di rotta. Finora infatti è riuscito a strappare solo concessioni di immagine, in particolare sulle esercitazioni congiunte tra americani e sudcoreani.

Su questo argomento Trump si è mostrato in effetti pronto a cedere, incurante dell’irritazione che provocava negli alleati asiatici. E allo stesso modo si è comportato di fronte alla grande quantità di nuovi test missilistici a breve e medio raggio effettuati dai nord coreani in palese violazione di una risoluzione dell’ONU. Il tacito e in taluni casi perfino esplicito beneplacito degli americani, pronti a considerare quei test un peccato veniale, è cominciato ad apparire ai sud coreani e ai giapponesi quasi una provocazione, certamente un campanello d’allarme, forse un voluto avvertimento che in fondo resuscita l’idea espressa da Trump all’inizio della sua presidenza: non contino all’infinito gli alleati asiatici sull’ombrello americano e provvedano a fare da soli.

D’altra parte è indubitabile che, se anche il negoziato andrà pur avanti attraverso gli appariscenti vertici, i gruppi di lavoro –  ciò che conta davvero – restano al palo. Il rappresentante americano per la Corea del Nord, Stephen Biegun, ha avuto finora ben poco da discutere con la sua controparte Kim Myong-gil. Nessun passo avanti è stato fatto sulla denuclearizzazione, sia sul suo reale significato sia sul metodo per conseguirla.

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