E’ stato difficile a volte rintracciare con precisione la rotta, perché alcune oscillazioni sono state di tipo tattico e altre di tipo impulsivo. Pur procedendo a zig zag, Trump è andato però in una direzione di massima, quella che possiamo definire dell’unilateralismo antagonistico. Un approccio sempre teso a verificare forza e resistenza della controparte, con una visione assolutamente “a somma zero” (uno vince, l’altro perde), e con la netta preferenza per l’azione solitaria (da soli quando possibile, con altri se proprio indispensabile).
Certo, ci sono scelte di politica regionale a spiegare in parte la decisione sull’Iran: in particolare l’asse con Arabia Saudita e Israele – che sta anche favorendo un avvicinamento, almeno temporaneo, tra i due paesi. Ma non si è intravisto da parte di Washington alcun tentativo di creare una coalizione o un meccanismo per affrontare in modo diverso la disastrosa crisi siriana, che è proprio al cuore di quasi tutte le tensioni nella regione. O di facilitare la difficile transizione in Iraq verso una qualche maggiore stabilità. Ed entrambi questi punti caldi creano senza dubbio condizioni favorevoli per l’ampliamento dell’influenza iraniana: Teheran ne approfitta, pur non avendoli certo innescati. In sostanza, anche ammettendo che l’Iran abbia un effetto nefasto e decisivo sull’intero Medio Oriente (il che sembra francamente una valutazione eccessiva), gli obiettivi americani non sono stati ben definiti dall’amministrazione Trump, e resta comunque una sorta di non sequitur tra questi e il rigetto dell’accordo sul nucleare del 2015.
Dunque, se non è una visione strategica chiara per la regione ad aver ispirato Trump, cosa ha davvero portato all’annuncio dell’8 maggio? Resta probabilmente una spiegazione più generale, coerente con l’atteggiamento del presidente verso gli affari internazionali. E’ stata anzitutto la volontà di liberarsi dai vincoli imposti (o rafforzati e rispettati, ove già esistevano) dal suo predecessore, come è avvenuto per l’intesa commerciale nel Pacifico (il TPP), per l’accordo di Parigi sul clima, per il formato dei “Six Party Talks” in Corea, e in qualche misura anche per il rapporto economico simbiotico con la Cina. Insomma, l’amministrazione Trump si considera ora assai più libera di far valere, senza vincoli e mediazioni, la potenza americana. E scommette tutto, per fermare i due maggiori programmi nucleari al mondo, sulla propria capacità di coercizione diretta nei confronti dei regimi iraniano e nordcoreano.
Il percorso avviato a gennaio 2017 è allora praticamente completato: il fantasma di Obama è esorcizzato, e comincia una fase nuova in cui si dovrà navigare con quale altra bussola – o soltanto a vista.