Da qualche settimana, un velato pensiero si faceva strada tra Riyadh, Abu Dhabi e Doha: Donald Trump, “l’amico Trump”, potrebbe non essere il leader giusto per affrontare – e se possibile gestire – la nuova stagione di destabilizzazione che il Medio Oriente attraversa dal 7 ottobre 2023. Ora che l’ex-presidente è stato rieletto, quello scomodo pensiero sta prendendo sempre più forma tra le dirigenze arabe del Golfo.
E una domanda si è allora subito imposta: come persuadere – il prossimo presidente, al contempo, a mitigare i toni con l’Iran e a frenare le offensive di Israele? In gioco ci sono la stabilità del Golfo e le strategie delle monarchie che, seppur da posizioni diverse (dentro o fuori dagli Accordi di Abramo, o a metà strada come i sauditi), non intendono scegliere fra Tel Aviv e Teheran, data la pericolosità dello scenario mediorientale e la necessità di un contesto stabile per centrare gli obiettivi post-oil.
Anche la decisione del Qatar di sospendere per settimane la mediazione tra Israele e Hamas, per poi riprendere il ruolo di mediatore, secondo ricostruzioni proprio su richiesta del team di Trump, per provare a chiudere un accordo sugli ostaggi, può essere letta come la volontà di prendere tempo in attesa di certezze sulla politica mediorientale degli USA.
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Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Qatar sono sempre stati, e ancora sono, sostenitori di Trump, il presidente che nel suo precedente mandato scelse di compiere il primo viaggio all’estero proprio in Arabia Saudita: era il 2017. I rapporti personali restano oggi ottimi – e nel Golfo ciò rappresenta già metà della diplomazia – e l’intesa economica è forte. Quest’anno, per esempio, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, quando in settembre si è recato negli Stati Uniti per partecipare all’Assemblea Generale dell’ONU, ha fatto tappa anche in Florida, a Mar a Lago, per incontrare l’allora candidato Trump.
Adesso, a proposito di Medio Oriente, le priorità politiche delle monarchie del Golfo e del prossimo presidente statunitense però non coincidono, al pari delle tattiche impiegate. Le prime spingono innanzitutto per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas a Gaza, e per consolidare quello tra Israele e Hezbollah in Libano. Per l’Arabia Saudita, la creazione di uno Stato palestinese è poi diventata, dopo il 7 ottobre, la precondizione alla normalizzazione con Israele. Riyadh ha anzi alzato i toni contro il governo israeliano dopo la vittoria di Trump. Soprattutto, le potenze arabe della regione intendono difendere il disgelo in corso con l’Iran, che ha portato alla ripresa delle relazioni diplomatiche con i sauditi nel marzo 2023. Inoltre, Arabia Saudita ed Emirati Arabi non hanno intenzione di aderire a “Prosperity Guardian”, la missione navale multinazionale lanciata nel dicembre 2023 dagli Stati Uniti per ripristinare la libertà di navigazione nel Mar Rosso: troppo alto il rischio che gli Houthi tornino ad attaccare Riyadh e Abu Dhabi, come hanno fatto nel recente passato provocando danni significativi.
Se c’è una guerra che secondo i repubblicani deve finire in tempi rapidi è quella in Ucraina. Poi viene il Medio Oriente. Inoltre i due alleati, ovvero i sovrani delle monarchie e il nuovo presidente, sono oggi fuori sincronia anche sugli Accordi di Abramo siglati nel 2020. Trump punterà molto probabilmente sull’estensione delle normalizzazioni diplomatiche con Israele (a oggi soltanto Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan vi hanno aderito ), bussando subito alla porta del regno saudita. Per Riyadh, la normalizzazione è ancora l’orizzonte strategico, ma non può avvenire prima del cessate il fuoco a Gaza e di un concreto programma a tappe per la creazione di uno Stato palestinese.
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Per sauditi e statunitensi, la strategia di fondo rimane la stessa: l’integrazione di Israele in Medio Oriente, con vantaggi geoeconomici e geostrategici per le monarchie del Golfo. Le tappe per arrivarci, però, adesso divergono e la sequenza è, essa stessa, politica.
Il vero “elefante nella stanza”, a Washington come a Riyadh e Abu Dhabi, si chiama Iran. Dal massacro del 7 ottobre in avanti, le monarchie hanno politicamente investito nella distensione con Teheran: un percorso iniziato prima ma poi divenuto essenziale per provare a “sigillare” il Golfo dalle tante scosse regionali. Fin qui, i sauditi sono riusciti a farlo, nonostante gli attacchi ormai incrociati fra Iran e Israele e l’apertura del fronte del Mar Rosso da parte degli Houthi dello Yemen, sostenuti militarmente proprio da Teheran.
Però, la politica saudita della distensione incontrerebbe ora delle difficoltà se davvero Trump tornasse alla politica della “massima pressione” contro Teheran, ovvero sanzioni economiche e toni minacciosi come fu tra il 2018 (quando gli USA uscirono unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015, il JCPOA, di fatto affondandolo) e il 2021. E a rischiare di più sarebbero, se non altro per ragioni geografiche, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, Paesi prospicienti all’Iran: non a caso proprio loro hanno sollevato critiche quando Israele preparava il secondo attacco di ritorsione contro Teheran (avvenuto in ottobre), chiedendo al presidente Joe Biden di convincere il governo israeliano a limitare la reazione principalmente ai siti militari iraniani. Colpire platealmente le infrastrutture energetiche o i siti nucleari avrebbe infatti prodotto uno scenario di aggravamento del conflitto imprevedibile per il Golfo.
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Anche perché le monarchie hanno già sperimentato gli effetti regionali della “massima pressione” trumpiana su Teheran, e non andò bene. Nel 2019, gli iraniani colpirono alcune petroliere in transito nel Golfo dell’Oman. Pochi mesi dopo, poi, vi fu l’attacco iraniano con missili e droni contro gli impianti della compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco, che dimezzò per due settimane la produzione di greggio del regno. Dalla Casa Bianca, “l’amico Trump” non reagì. E a Riyadh e dintorni si sentirono molto soli, e anche delusi.
Fu da quel momento che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud cambiò registro, anticipato dall’emiratino Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Basta polarizzazione, basta assertività militare nella regione: sì alla de-escalation, sì alla cooperazione fra competitor (Qatar, Turchia) e alla coesistenza fra rivali (Iran, Siria). La politica estera si è da allora messa al servizio degli obiettivi economici: in gioco c’è il successo del programma di diversificazione post-oil di Vision 2030. E per aprire il dialogo con l’Iran, l’Arabia Saudita si è affidata innanzitutto alla mediazione araba di Iraq e Oman, poi alla Cina, con la stretta di mano fra sauditi e iraniani a Pechino nel 2023.
Con Trump alla Casa Bianca, sarà più difficile per l’Arabia Saudita provare a negoziare il nuovo patto di difesa con gli Stati Uniti scorporando il dossier della normalizzazione con Israele dall’intero pacchetto.
Nella sua lettera aperta al nuovo presidente, il principe Turki bin Faisal Al Saud, ascoltatissimo ex capo dell’intelligence saudita, ha mostrato toni entusiastici per la rielezione di Trump, esortandolo a cercare la pace in Medio Oriente. Il percorso per arrivare alla “pace”, e a un nuovo ordine regionale potrebbe, però, generare qualche fibrillazione a Riyadh se ciò significasse, per gli Stati Uniti, assecondare le scelte militari dell’attuale governo israeliano e rialzare la tensione con l’Iran. In quel caso, l’Arabia Saudita potrebbe di nuovo rivolgersi alla Cina per tenere saldo il dialogo con Teheran, e dunque la stabilità del Golfo.
Ora che la lettura della realtà e del futuro del Medio Oriente mostrano significative differenze, ci vorrà ancora un po’ per capire se Stati Uniti e Arabia Saudita sapranno recuperare gli stessi ”tempi”, quindi la sintonia politica. E se il ritorno di Trump a Washington sarà davvero il migliore degli scenari possibili per Riyadh e le monarchie. Questa attesa è già di per sé un elemento di novità rispetto alle valutazioni che sauditi, emiratini e qatarini offrivano del voto americano, fino a qualche settimana fa.