Trump ha vinto grazie al sostegno delle fasce medio-basse della popolazione, facendo leva sulla diminuzione del potere di acquisto degli americani. Ora però il tycoon deve misurarsi con le promesse fatte in campagna elettorale. Le incognite sono molte, a iniziare dal difficile equilibrio che dovrà mantenere fra populismo economico e classiche spinte repubblicane alla riduzione del bilancio pubblico. Tutto ciò però non sembra preoccupare Wall Street, allettata dalle proposte di deregulation e da un cambio di passo nelle politiche antitrust.
La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2024 apre una serie di punti interrogativi in merito al futuro della politica economica degli Stati Uniti. Data l’importanza del populismo antiglobalizzazione nella campagna elettorale del 2016, e le prime misure protezionistiche che ne seguirono, occorre capire fino a che punto gli stessi temi antisistema siano presenti ancora oggi. Rimane senza dubbio la volontà di utilizzare lo strumento dei dazi per ridurre il deficit commerciale, ma d’altra parte ci sono segnali di forte vicinanza alle posizioni più tradizionali dei repubblicani, dalla deregulation all’austerità. Dopo la riacquisita centralità della politica industriale durante l’amministrazione Biden, è legittimo chiedersi, quindi, quale nuova direzione economica verrà intrapresa dall’America nei prossimi anni.
UN TYCOON PER LA CLASSE LAVORATRICE. Il primo dato essenziale è che ancora una volta Trump è riuscito a fare appello alle fasce medie e basse della popolazione americana. Ha aumentato il sostegno in particolare tra le minoranze, a partire dai latinos, che ormai sono una parte importante della classe lavoratrice del paese. Dunque, il tycoon, con un patrimonio di alcuni miliardi di dollari, risulta il candidato preferito di chi lavora molto ma guadagna poco. Dietro a questo connubio paradossale si trova una miscela di temi economici e culturali, una visione dei valori e delle esigenze degli americani che traccia una divisione netta tra chi ha beneficiato dell’economia globalizzata e chi no: i primi, legati al mondo dei servizi professionali e tecnologici; i secondi che hanno sofferto la perdita del lavoro manuale, in particolare nel mondo della manifattura.
Tutto, in ogni caso, è iniziato con l’attacco di Trump agli accordi commerciali e alla delocalizzazione. Arrivato alla Casa Bianca, il presidente nel 2017 bloccò subito i nuovi trattati di libero scambio con l’Asia e con l’Europa, e riuscì (tra l’altro con l’aiuto dei sindacati e dei democratici al Congresso) a riscrivere l’accordo con il Messico. Alcuni miglioramenti furono raggiunti, ma a livello complessivo la strategia di lanciare un grande ritorno della manifattura non ebbe successo immediato, principalmente per due motivi: primo, perché il mondo finanziario non ha utilizzato i fondi provenienti dal taglio delle tasse e dal rimpatrio dei capitali per nuovi investimenti, ma ha preferito aumentare i trasferimenti ai propri azionisti, attraverso massicci piani di riacquisto delle azioni; secondo, perché la produzione di beni richiede fabbriche e operai qualificati, elementi persi negli anni della deriva post-industriale.
La spinta più efficace per la ricostruzione della base produttiva è venuta, invece, dall’amministrazione Biden, che con una serie di grandi iniziative legislative ha allocato centinaia di miliardi di dollari verso le infrastrutture, i nuovi impianti produttivi, e anche la ricerca scientifica e tecnologica. Inoltre, la Casa Bianca ha pensato bene di dirigere le risorse verso le zone che più avevano sofferto durante gli anni della globalizzazione.
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Questo approccio place-based doveva affrontare anche il problema politico dei democratici, quello di sembrare lontani dalle esigenze della classe lavoratrice che in passato li aveva sempre sostenuti. Pure il forte appoggio di Biden ai sindacati aveva la stessa doppia valenza: rafforzare l’economia nazionale e rinsaldare i legami con gli operai attirati dal populismo di Trump. Sul lato politico, la strategia non ha funzionato. Gli elettori di classe media e bassa, quelli che non hanno fatto l’università e svolgono lavori manuali, continuano a spostarsi verso Trump. In termini assoluti il candidato repubblicano ha aumentato di poco i propri voti rispetto al 2020, ma continua comunque a crescere, in particolare tra i giovani uomini e anche i gruppi etnici di minoranza come gli ispanici.
Nel 2024 ci sono stati due grandi motivi per confermare questa tendenza: la polarizzazione politica e l’inflazione. Il primo punto riflette il consolidamento di una divisione culturale negli Stati Uniti, in cui i democratici sono visti come presi dalle battaglie woke della sinistra estrema, dai diritti LGBTQ all’aborto in qualsiasi circostanza, dall’apertura all’immigrazione incontrollata all’enfasi sul contrasto alla discriminazione in ogni ambito. L’immagine che ne consegue è quella di un partito che persegue obiettivi culturali radicali, lontani dai valori più conservatori degli elettori della classe lavoratrice. Non significa che questi sostenitori di Trump siano tutti bigotti o reazionari, ma che il clima di polarizzazione – promosso espressamente dai partiti, che si concentrano sulle posizioni più estreme degli avversari – ha prevalso rispetto al dialogo, influenzando molto la possibilità di instaurare una discussione politica razionale. I democratici, insomma, sono visti come poco affidabili perché lontani culturalmente da una certa fascia della popolazione.
IT’S THE INFLATION, STUPID. Il secondo elemento, quello più pratico, è stata l’inflazione. L’aumento dei prezzi, che ha toccato il 9,1% nel 2022, è stato sentito soprattutto nei settori degli alimentari e delle abitazioni. I dati macroeconomici indicano che i salari sono cresciuti in questi anni, tanto da mantenere il passo con l’inflazione a livello aggregato. Però in questi due settori gli aumenti sono stati maggiori, pesando chiaramente sui redditi più bassi; e la discesa dell’inflazione a poco più del 2% nei mesi prima del voto non ha aiutato molto, in quanto i prezzi rimangono ai livelli di prima, ben più alti dei livelli di pochi anni fa, impressi nella memoria della gente. Se l’interruzione del commercio internazionale durante la pandemia ha guidato la crescita dei prezzi dei beni di consumo, è stata proprio la risposta all’inflazione da parte della banca centrale americana a peggiorare la situazione nel settore delle abitazioni.
L’aumento dei tassi d’interesse ha fatto raddoppiare la rata dei mutui variabili, aggravando il fenomeno che si doveva combattere. In più il mercato degli affitti sta attraversando una fase di riorganizzazione a causa di alcuni grandi gruppi finanziari che acquistano vaste quantità di appartamenti per generare nuove fonti di reddito, approfittando della possibilità di aumentare i canoni. Blackstone Group, ad esempio, è attualmente il primo proprietario delle case negli Stati Uniti.
Il risultato complessivo è stato che l’amministrazione Biden, e Kamala Harris in quanto rappresentante della stessa, ha dovuto prendersi la colpa per il peggioramento del potere d’acquisto della popolazione. Da parte sua la candidata democratica non è riuscita a costruire una narrazione convincente per spiegare l’origine dell’inflazione, e nemmeno la strategia per combatterla. Harris ha accusato le grandi società di conseguire degli “extraprofitti”, ma ha perso l’occasione di mostrare che la politica industriale dell’amministrazione era mirata proprio ad accrescere la produzione e quindi a garantire maggiore stabilità economica di fronte alle crisi.
D’altra parte, Trump e i repubblicani hanno martellato sul tema inflazione per tutto l’anno. Questo approccio è stato senza dubbio efficace, affossando Harris sulla questione primaria per gli elettori. Tuttavia, occorre chiedersi ora cosa farà Trump per combattere il fenomeno. Durante la campagna elettorale non è stato necessario, evidentemente, entrare nei dettagli e di fronte alle difficoltà quotidiane della gente le proteste di Harris sono valse poco. Le promesse fatte dal repubblicano, però, sono poco convincenti. Trump ha promesso di espellere 11 milioni di immigrati, una scelta che creerebbe non pochi problemi al mercato del lavoro. Intende, poi, imporre nuovi dazi sulle importazioni dall’estero, allo scopo di eliminare il deficit commerciale. Come già spiegato, è un piano che difficilmente può aiutare a breve termine, in quanto la costruzione di nuovi impianti produttivi richiede anni, mentre i dazi potranno facilmente portare a nuovi aumenti dei prezzi. La migliore proposta di Trump è un taglio delle tasse, che potrebbe effettivamente garantire più reddito disponibile ai cittadini. A un certo punto il tycoon ha abbracciato l’idea di detassare non solo le mance per i lavoratori della ristorazione – la prima trovata per guadagnare voti nel Nevada – ma anche gli straordinari, arrivando successivamente a promettere una detassazione delle pensioni per tutti.
Si tratta di proposte difficili da attuare, a meno che il Congresso non abbracci l’idea di abbandonare del tutto il concetto di equilibrio nei conti pubblici. È proprio qui che occorre capire dove intende andare Donald Trump. Nella foga di aiutare la gente normale ridurrà drasticamente le tasse, ma senza tagli pesanti ai servizi pubblici? In teoria potrebbe abbracciare la Modern Monetary Theory e infischiarsene del deficit e del debito; tuttavia, facendo Trump parte del partito repubblicano, soprattutto dopo un periodo di alta inflazione, una scelta del genere sembra davvero poco probabile. Piuttosto, si vedono già segnali di un ritorno all’ortodossia in termini economici, cioè la volontà di tagliare la spesa pubblica e ridurre l’apparato dello Stato.
Qui entra in gioco la figura di Elon Musk. L’uomo più ricco del mondo, proprietario della piattaforma social X come di Tesla e SpaceX, ha parlato del suo obiettivo di attuare una drastica spending review. Afferma di poter tagliare 2.000 miliardi di dollari – quasi un terzo del bilancio federale – per aumentare l’efficienza dell’economia. A vedere i numeri, significherebbe eliminare quasi tutto tranne la difesa, le pensioni e la sanità pubblica. Ovviamente ciò non avverrà, ma anche una piccola percentuale di questi tagli avrebbe conseguenze sociali enormi.
POPULISMO ECONOMICO PRO-BUSINESS. L’ideologia anti-spesa è ben presente nel partito repubblicano, come si vede dalle dichiarazioni del presidente della Camera Mike Johnson, che ha parlato di cancellare la politica industriale del CHIPS and Science Act (per poi fare marcia indietro), e dei deputati conservatori che puntano sempre a congelare il bilancio dello Stato. Questa visione, se portata avanti anche solo parzialmente, contrasterebbe con la nuova direzione impostata negli ultimi anni (anche sotto Trump) di aumentare l’intervento pubblico per garantire maggiore resilienza e competitività nell’attuale clima di sfida geoeconomica e geopolitica.
A questo punto bisogna chiedersi quanto sia effettivamente populista Donald Trump. La difesa dello Stato sociale è uno dei punti dove aveva rotto con il partito repubblicano già nel 2015. Per anni i conservatori chiedevano freni alla spesa pubblica, lavorando con i democratici centristi per cercare di ridurre l’impronta dello Stato anche a costo di eliminare servizi essenziali. Trump ha capito bene che fare campagna elettorale proponendo di tagliare la Social Security, le pensioni pubbliche, e Medicare, la sanità pubblica per gli anziani, non era una buona strategia. Si è impegnato a non toccarle, dimostrando di essere lontano dall’ideologia repubblicana. Oggi si mette in dubbio questo impegno, o perlomeno la sostanza dello stesso, se il presidente dovesse accettare l’idea di ridurre lo Stato sociale. Se seguisse questa tendenza, Trump rientrerebbe nei ranghi di quello che i cittadini statunitensi vedono come il “sistema” politico, con rischi per la sua popolarità.
A Wall Street, il presidente eletto viene visto bene. Rispetto a un populismo sociale che vede la grande finanza come il nemico, ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di perseguire una politica di riforma e di regolamentazione. Sempre nella sua prima campagna elettorale, Donald Trump inveiva contro “l’establishment politico che ha dissanguato il nostro paese”, appoggiando l’idea di “spezzare le grandi banche e di tassare di più i ricchi”. Da presidente, però, non ha fatto nulla per andare controcorrente sul tema della finanza, nonostante il momento propizio, vista la rabbia popolare sfruttata da lui stesso e da Bernie Sanders contro le disuguaglianze create dalla globalizzazione.
Piuttosto, durante la sua prima presidenza Trump ha attuato un programma di deregulation perfettamente in linea con la tradizione liberista: sul lavoro, l’ambiente, la sanità e altri settori. Tutte le indicazioni sono che la seconda amministrazione Trump proseguirà sulla stessa strada, forse in modo ancora più aggressivo. Si tratta di un’apparente contraddizione con la concezione del “nazionalismo economico” avanzata da alcuni consiglieri. Al momento quelli più in vista sono il vicepresidente J.D. Vance, forse il più capace di spiegare questa visione al pubblico, e l’ex Trade Representative Robert Lighthizer, autore del piano per riportare la produzione negli Stati Uniti ed eliminare il deficit commerciale. Si potrebbe dire che l’amministrazione Trump continuerà con una politica liberista all’interno negli Stati Uniti, mentre si muoverà in senso contrario a livello internazionale, perseguendo l’obiettivo della protezione dai mercati dove non riesce a competere.
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Un campo dove si rischia un’inversione di marcia rispetto all’amministrazione democratica è quello dell’antitrust. La squadra di Biden, guidata dalla giovane Lina Khan della Federal Trade Commission (FTC), non ha nascosto l’intenzione di ridimensionare il ruolo delle società Big Tech, fino al punto di costringere alcune di loro a dividersi. Questa spinta antitrust è sostenuta dalla sinistra, ma anche da una parte della destra populista, avversa ai gestori dei social network per via del loro potere di controllo sui contenuti sulle piattaforme digitali. Trump ha già espresso dubbi in merito all’idea di spezzare Google in più parti, ed è difficile pensare che i repubblicani sceglieranno per la FTC un personaggio con obiettivi simili a quelli di Biden e Khan. Gli esperti del settore si aspettano una maggiore apertura alle fusioni e acquisizioni, l’abbandono dei tentativi di difendere i lavoratori, e altri cambiamenti graditi a Wall Street. L’effetto sarà senz’altro di promuovere la rapida crescita economica, rimuovendo i freni dal mondo imprenditoriale che Biden cercava di introdurre per proteggere la classe media.
Con una tale modalità si avrà una definizione più chiara del populismo di Trump: rigido con i competitori internazionali, ma ormai molto lontano da rappresentare una minaccia agli interessi del Big Business e della finanza. Ed è per questo motivo che il ritorno di Trump alla Casa Bianca non viene visto come una minaccia dall’establishment economico.
Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2024 di Aspenia