Verso la fine degli anni Novanta si è iniziato a parlare di una ‘nuova’ Via della seta. Sembrava possibile e conveniente ripristinare il collegamento via terra tra l’Europa e l’area economicamente più dinamica del mondo, l’estremo Oriente. L’idea aveva fatto tornare in auge alcuni concetti legati ai principali paradigmi della geopolitica. L’heartland mackinderiano, quindi, era visto sia come un’arena di vivace competizione per il controllo di risorse ritenute importanti per la sicurezza energetica dell’Occidente, sia come uno snodo logistico strategico per la proiezione del modello politico ed economico occidentale verso Oriente.
Negli anni Duemila, tuttavia, la storia ha intrapreso un corso diverso da quello immaginato al termine della Guerra fredda. Rispetto alle aspettative legate alla oil diplomacy clintoniana, la disillusione seguita alla scelta americana di non sostenere la Georgia nella guerra in Ossezia del Sud nel 2008 ha assunto i contorni di una brusca sterzata. Né Obama, in seguito, ha mostrato la capacità di comprendere l’intreccio etnico, culturale e politico che rende l’area compresa tra il Caucaso, l’altopiano iraniano e le pianure dell’Asia Centrale uno spazio geopolitico il cui ruolo internazionale risulta assolutamente originale.
La riscoperta dell’Eurasia
La ricostruzione di un’ideale linea di comunicazione Est-Ovest incontrava quindi una pluralità di ostacoli. Ai già parzialmente menzionati conflitti irrisolti della regione caucasica (Abcasia; Ossezia del Sud; e Nagorno-Karabakh), si aggiungevano infatti la destabilizzazione di Afghanistan e Iraq e, infine, il riposizionamento della Federazione Russa. Quest’ultima in particolare avrebbe assunto con il tempo la forma di una competizione con l’Occidente, soprattutto nelle aree di “contatto” tra i due universi culturali, come i Paesi baltici, l’Ucraina e il Caucaso meridionale. A tale quadro, poi, andavano ad aggiungersi le posizioni dei due terminali della Via: sia la UE (con riferimento soprattutto alle posizioni della Commissione) che la Cina mantenevano entrambe un atteggiamento ambiguo, benché per ragioni differenti.
Nel caso di Bruxelles, la contaminazione tra obiettivi energetici e legittimazione politica aveva portato a scommettere su un progetto come il Nabucco e un metodo come la condizionalità democratica, a discapito di attente valutazioni tecniche e di una diplomazia maggiormente orientata al pragmatismo. Queste ultime, con buona probabilità, avrebbero assicurato relazioni più strutturate con i Paesi disseminati lungo la direttrice Ovest-Est. Relativamente a Pechino, invece, le modalità con le quali il colosso asiatico intendeva servirsi del Kazakistan come varco per proiettare merci, capitali, uomini e interessi verso Occidente appariva opaco non solo nelle intenzioni e nei metodi, ma anche nei termini dell’ampiezza e della profondità della politica stessa. Non era del tutto evidente, insomma, se la Cina intendesse praticare una politica di estrazione, tipica delle relazioni tra grandi potenze e potenze secondarie, oppure accedere semplicemente a nuovi mercati ove allocare le merci a basso costo prodotte in patria.
Il superamento della crisi economica del 2007/2008 e la parziale rivisitazione dei ruoli, degli interessi e delle posizioni delle principali potenze – soprattutto con riferimento al disimpegno americano dall’Asia Centrale – avrebbe agevolato nuove dinamiche collegate al commercio internazionale. Il tema della logistica e quello della geografia sarebbero tornati al centro del dibattito, riaffermando la rilevanza dell’heartland nella global supply chain del XXI secolo.
Le ibridazioni geopolitiche della global supply chain
In un contesto dove l’interazione tra Est e Ovest appare sostanzialmente diversa dai primi anni Duemila, la Via della seta torna al centro di uno schema più ampio di quello immaginato all’apice del primato americano. Il sistema internazionale contemporaneo, infatti, sembra maggiormente articolato sotto il profilo sia degli interessi che delle strutture politico-economiche. Europa e Stati Uniti – un tempo principali promotori della Via della seta – sembrano ora meno reattivi. Bruxelles è concentrata nel contenere le spinte centrifughe all’interno dell’Unione. Mentre Washington pare più cauta sia per scongiurare il pericolo dell’overstretching ed evitare nuove frizioni con Mosca nel suo near abroad, sia per assecondare internamente il ritorno di fiamma del protezionismo. Al contrario, l’evoluzione economica e istituzionale di Pechino rende quest’ultima più interdipendente e compatibile con l’Occidente. Dalle posizioni assunte sul climate change – le quali, a loro volta, sono associate a modelli economici e di sviluppo industriale differenti da quelli utilizzati sinora – al cambiamento dei bisogni della società cinese, Oriente e Occidente appaiono assai più vicini che in passato. Un collegamento terreste che dia conto di questo cambiamento nella società internazionale costituirebbe dunque uno sviluppo coerente.
Nell’ottica di assumere un ruolo-cardine rispetto agli sviluppi del commercio globale, il lancio da parte dei leader cinesi del progetto One Belt One Road (OBOR) salda le diverse dimensioni della logistica aprendo interessanti scenari di ibridazione tra i paradigmi geopolitici terrestri e marittimi. In particolare, proprio in ragione di un più ampio contesto di logistica integrata, lo snodo geopolitico compreso tra il Caucaso e l’Asia Centrale diventa parte di un sottosistema funzionale nel quale i flussi commerciali provenienti sia da Occidente sia da Oriente potranno essere distribuiti ora via terra ora via acqua nelle diverse direttrici, incluse quella russa e quella africana. L’obiettivo sullo sfondo del progetto appare molto ambizioso e legato a una possibile spallata da parte della Cina allo scricchiolante ordine unipolare: attestarsi contemporaneamente come garante dei traffici marittimi dall’Oceano Pacifico al mar Mediterraneo e potenza egemone sulla grande massa eurasiatica.
A completare questo quadro, benché si tratti di sviluppi non direttamente collegati con i due tragitti (terrestre e marittimo) di OBOR, va poi segnalato quanto si è verificato al livello di infrastrutture portuali nel Caspio. Destinati ad accogliere le merci provenienti da Oriente e sviluppati soprattutto grazie ai capitali e al know-how asiatici, quegli hub sono destinati ad allacciarsi sulla terraferma all’imponente progetto entro il quale si colloca la ferrovia che collega Baku, Tbilisi e Kars (BTK) – ovvero una sistema integrato su rotaia che, attraverso il tunnel Marmaray che solca il Bosforo, congiungerà Europa, Caucaso e Asia, delineando la nuova frontiera della geopolitica del XXI secolo.
Terra e mare, insomma, non daranno più origine a paradigmi strategici e politici antitetici – il primo basato sul potere militare e il secondo sul commercio internazionale. Al contrario, lungo la nuova Via della Seta prolifereranno modelli “ibridi” o, meglio, “integrati”, dove la componente tecnologica costituirà il collante di schemi di interazione vieppiù complessi e volti ad assicurare l’effettività della global supply chain, quindi il continuo scambio di uomini, merci, capitali e idee tra Oriente e Occidente.