Tassonomia delle fonti energetiche e consumi elettrici: strumento di policy, non esercizio ontologico

 

La discussione sulla cosiddetta “tassonomia europea” delle fonti rinnovabili sta assumendo i toni di uno scontro tra guelfi e ghibellini: è un modo di affrontare i problemi ambientali che purtroppo non aiuta i governi a compiere scelte migliori, né facilita una partecipazione informata dell’opinione pubblica.

 

Uno spunto di riflessione viene, ad esempio, dal recente Rapporto della International Energy Agency sulla produzione e il consumo di energia elettrica. Il Rapporto sintetizza alcuni trend che forse meritano più attenzione di quanta ne ricevano, evidenziando come il 2021 ha visto un aumento globale del 6% della domanda di elettricità, con un contributo senza precedenti da parte di carbone e gas naturale – nonostante la notevole crescita delle fonti rinnovabili. Ne è seguito un livello-record di emissioni nocive proveniente proprio dal settore elettrico, che è incompatibile con una traiettoria di decarbonizzazione.

Fin qui i dati, le proiezioni e le analisi della IEA. Vediamo allora di ragionare su questa base.

Come ben noto, vi sono almeno due spinte dietro l’aumento dei consumi elettrici. La prima è di tipo globale, ed è sostanzialmente fuori controllo: si tratta della traiettoria di crescita economica e demografica di molti Paesi emergenti – che inevitabilmente implica un forte incremento della domanda e dei consumi. La seconda spinta viene da una scelta deliberata da parte dei Paesi più ricchi e più tecnologicamente avanzati: l’elettrificazione è indicata come una via maestra per ridurre le emissioni nocive, e dunque come un fattore-chiave della transizione verde. Se si sommano queste due linee di tendenza, risulta chiara l’esigenza di misure per garantire l’elettricità aggiuntiva, e simultaneamente per assicurare che ciò avvenga in modo ecologicamente sostenibile. Non possiamo però illuderci di gestire la transizione verde in un contesto statico, o coeteris paribus, in un contesto globale dinamico che si sta già muovendo rapidamente.

 

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L’aumento dei consumi non può vedersi come un dato secondario: è in realtà uno snodo cruciale. Soltanto dopo che la questione sia impostata correttamente (cioè realisticamente), si può allora discutere di mix energetico, di “tassonomia” europea, di incentivi e di finanziamenti. Il punto di partenza concettuale deve essere l’esigenza, su scala mondiale, di forniture crescenti, sicure e non intermittenti di energia elettrica.

Una volta che si sia preso atto di questo dato di fondo, diventa facilmente comprensibile che ci aspettano scelte difficili rispetto ai prezzi energetici: è praticamente inevitabile che a fronte di una domanda in rapida crescita i prezzi tendano, almeno temporaneamente, ad aumentare. Se a ciò si aggiunge l’incertezza sul mix tecnologico e la carenza (speriamo ovviamente temporanea) di infrastrutture adeguate, è ancora più chiaro che ci sarà una fase di notevole volatilità dei mercati.

L’importanza decisiva dei prezzi è peraltro chiara fin dall’inizio della cosiddetta “transizione verde”, che poggia in buona parte proprio su incentivi e disincentivi disegnati appositamente per influenzare i mercati – come la famosa “carbon tax” in qualsiasi configurazione specifica. E il concetto dovrebbe essere ancora più lampante oggi, in una fase di forte pressione sui prezzi energetici che sta mettendo in gravi difficoltà i produttori, i governi, e soprattutto i consumatori di mezzo mondo. Le fonti energetiche, come ben noto, hanno un impatto particolarmente ampio sull’intera economia, poiché il loro costo si ripercuote su tutte le filiere produttive – compresi i servizi, a maggior ragione in un contesto di forte digitalizzazione.

Ora, se un effetto della transizione verde è di tipo inflattivo, si pone immediatamente una delicata questione politica, oltre che economica: il consenso per le politiche orientate alla sostenibilità dipende dalla volontà dei cittadini di sostenerne gli eventuali costi. In mancanza di un consenso diffuso e durevole, si crea un cortocircuito tra mercati e dinamiche politiche, visto che i produttori scaricano sui consumatori finali i costi aggiuntivi, e quei consumatori si fanno valere, presto o tardi, nella loro veste di elettori.

Cosa deriva da queste osservazioni molto generali? Ne deriva anzitutto che al pubblico va spiegato e ricordato come i mercati siano uno strumento necessario – seppure non sufficiente – per realizzare gli obiettivi verdi/sostenibili. In altre parole, non si può perseguire un’epocale trasformazione economica al di fuori dei fondamentali meccanismi di mercato, anche ammesso che interventi governativi e accordi internazionali possano spingere gli attori economici in una specifica direzione senza generare effetti indesiderati, indiretti e imprevisti.

Ne deriva inoltre che l’attuale dibattito (al livello dei governi, delle organizzazioni internazionali, delle società civili) dovrebbe tenere conto maggiormente della traiettoria dei consumi elettrici. Tecnologie come le smart grid consentiranno certamente una maggiore efficienza, migliori distribuzione e stoccaggio dell’energia prodotta, e dunque una minore impronta ambientale; ma le spinte inflattive ci ricordano intanto che la trasformazione dell’intero sistema va gestita con grande cautela nei confronti di tutte le categorie economiche coinvolte. Non è neppure sufficiente tutelare le fasce di popolazione più deboli o esposte – come si comincia a fare con alcuni interventi per calmierare i prezzi o attutirne l’impatto – perché i produttori e gli investitori sono parte integrante della transizione: c’è bisogno urgente anche della loro capacità tecnica e innovativa. Fare i conti con le risorse finanziarie non è uno strano capriccio, o un cedimento alle grandi lobby industriali, ma una componente fondamentale della “ricetta sostenibile”.

 

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Per sostenibilità si dovrebbe qui intendere, in senso ampio, un insieme di politiche e norme che siano economicamente realistiche e socialmente accettate (da significative maggioranze, quantomeno). E la transizione, per definizione, è una fase di passaggio: come tale, richiede dei compromessi per arrivare dal punto “A” al punto “C”, passando per una sorta di area grigia “B”. Se allora per molti Paesi avanzati il gas naturale è la soluzione pratica attualmente disponibile per assicurare il funzionamento dell’economia, sembra fuori luogo demonizzare questa fonte energetica in quanto “non rinnovabile” e “inquinante” – per la semplice ragione che al momento non ve n’è una migliore a cui si possa immediatamente attingere.

Per venire così alle scelte macro di cui si discute in questi mesi, la tanto controversa “tassonomia europea” dovrà per forza di cose essere molto ampia: non per una scelta ideologica ma, al contrario, per tenere aperte tutte le opzioni possibili in vista di innovazioni tecnologiche basate sulla sperimentazione. Forse il termine stesso – tassonomia – trae a volte in inganno, perché suggerisce che si stia formulando una classifica di tipo “naturalistico”, valida oggettivamente e una volta per tutte. In realtà, la lista delle fonti che ad oggi sono definite “pulite” è uno strumento pragmatico di policy per indirizzare la ricerca e gli investimenti. Inoltre, nessuna fonte energetica è al momento ad impatto zero, perché almeno nella fase di generazione e di costruzione delle infrastrutture si lascia un’impronta ambientale non trascurabile. Ma nell’ottica pragmatica di scelte di policy transitorie questo non è un disastro; è piuttosto un trade-off ragionevole e calcolato.

Una battaglia frontale tra guelfi e ghibellini serve davvero poco rispetto a un problema complesso come quello ambientale per un nuovo modello di crescita e sviluppo.

 

 

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