“Sei un politico, un attivista o un delinquente?” Questa è l’invettiva rivolta al capo di Stato della Bolivia Evo Morales da Carlos Mesa, ex presidente (2003-2005) e principale sfidante (staccato di oltre 10 punti, con il 36,5% contro il 47% del presidente uscente, secondo i dati ufficiali) alle elezioni di domenica 20 ottobre. La domanda retorica raffigura il convulso quadro del paese sudamericano.
Dopo la denuncia di brogli da parte delle opposizioni e i disordini scoppiati a seguito dell’interruzione della pubblicazione dello spoglio delle schede, Morales ha minacciato di isolare le aree coinvolte negli attacchi incendiari ai seggi e negli scioperi invocati dalle opposizioni. Benché con percentuali sensibilmente inferiori rispetto al 2009 (64%) e 2014 (61%), il Tribunale supremo elettorale ha assegnato a Morales la presidenza senza necessità di un ballottaggio – si tratterebbe del quarto mandato consecutivo dal 2005 – e al suo partito Mas (Movimiento al Socialismo) una maggioranza assoluta al parlamento. La regolarità della tornata viene contestata dai partiti di opposizione con il sostegno di una parte dell’elettorato, di Washington e alcune capitali sudamericane allineate agli USA, come anche dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e dell’Unione Europea.
Priva di sbocchi sul mare e ricca di risorse energetiche e minerarie (dal gas al litio), terzo produttore al mondo di coca, la Bolivia è tra le nazioni più povere del Sudamerica ma tra le prime per crescita economica nell’ultimo quindicennio; il PIL è incrementato in media del 4% annuo (trend confermato dalle stime per il 2019), quello pro capite è triplicato. E’ la cartina di tornasole della stagione progressista sudamericana, segnata dal ritorno di governi conservatori in paesi come Argentina, Brasile, Cile e dalla crisi del Venezuela.
Il frammentato arco di partiti d’opposizione ha di fatto basato la campagna elettorale sul rifiuto dello status quo, parlando apertamente di frode elettorale e bollando Morales come un autocrate, responsabile di una deriva anti-democratica simile a quella del Venezuela del sodale Nicolás Maduro. Narrazione che ha tratto linfa (oltre che dalla sospensione della pubblicazione dello spoglio elettorale per oltre 24 ore dopo le elezioni) dal fallimento nel 2016 (con il 51,3% contrario) del referendum costituzionale che avrebbe permesso al presidente di candidarsi per un terzo mandato consecutivo, bypassato nel 2017 grazie a una controversa decisione della Corte Costituzionale. Le opposizioni hanno anche puntato il dito contro la politica ambientale governativa e la gestione degli incendi che in estate hanno interessato un’area di almeno tre milioni e mezzo di ettari di Chiquitania (nel dipartimento di Santa Cruz, il più prospero del paese).
Frattanto si registrano l’aumento del debito pubblico, del deficit fiscale e delle partite correnti e la diminuzione delle riserve monetarie, frutto secondo l’FMI delle politiche anticicliche successive alla contrazione dei prezzi internazionali delle materie prime dopo il decennio 2004-2014, e la difficoltà nei due principali mercati di esportazione (Brasile e Argentina). Dati che studi USA e opposizioni locali indicano come segnali di una futura crisi di bilancia dei pagamenti.
Ma Evo Morales, primo capo di Stato boliviano di origini Aymara (popolazione andina che vive tra Bolivia, Perù, Cile e Argentina), continua a godere del favore di una parte sostanziosa dell’elettorato, grazie a due fattori principali, veicolati anche dalla sua forza comunicativa e carismatica: i risultati socio-economici raggiunti in 13 anni di governo e le politiche di inclusione della popolazione indigena – questa costituisce circa il 41% di quella complessiva, stando all’ultimo censimento del 2012 – e dei ceti prima ai margini della costruzione nazionale. Morales ribatte che è in atto un tentativo di colpo di Stato, sulla falsa riga di quello che, con l’aiuto delle destre oligarchiche e dell’imperialismo internazionale, tenta di insediare Juan Guaidó alla guida del Venezuela. Senza tuttavia scartare la possibilità di prestarsi a un secondo turno – nei calcoli delle opposizioni in grado di coagulare il dissenso verso Morales – qualora il riconteggio dei voti attualmente sotto il vaglio dell’OSA dovesse provare avvenute irregolarità.
Le manifestazioni contro e a favore di Morales in Bolivia e l’instabilità delle ultime settimane nella regione confermano, con i dovuti distinguo, le contraddizioni endemiche di un continente che, malgrado le alternanze fra governi conservatori e progressisti, economicamente dipende dai mercati internazionali. E che sconta faglie etnico-sociali, prima che ideologiche, che i cicli di bonanza possono mitigare ma che tornano a esprimersi nella propria cogenza quando l’economia dà segnali di cedimento e i governanti piegano (più o meno apertamente) le regole democratiche.
La Bolivia di Morales ha goduto e gode di uno dei maggiori tassi di crescita del continente e di relativa stabilità, nonostante ripetute manifestazioni di malcontento nel corso della sua amministrazione. Agli occhi della propria base elettorale, Morales ha sostanzialmente tenuto fede alle promesse.
Sul piano interno, l’obiettivo è stato perseguito con la nazionalizzazione mirata dei comparti strategici dell’economia; le manovre di sostegno alla domanda interna; l’aumento della spesa pubblica e del welfare; il riconoscimento costituzionale (con la Carta fondamentale del 2009) e politico delle popolazioni indigene e dei meno abbienti; la redistribuzione della ricchezza. Politiche che hanno tagliato il tasso di povertà dal 60% al 35% e quello di povertà estrema dal 32% al 15%, riducendo le disuguaglianze. Le manovre economiche hanno fatto perno sulle nazionalizzazioni (in primis nei settori energetico, elettrico, delle telecomunicazioni) ma evitando estremismi e soprattutto con politiche di bilancio più prudenti di quelle dei vicini, che hanno evitato alla Bolivia un indebitamento massiccio nel primo decennio di gestione.
Sul piano internazionale, il governo ha lavorato per una proiezione a difesa della sovranità nazionale e regionale, volta al multipolarismo e avversa all’influenza degli Stati Uniti e di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Passante quindi per l’approfondimento dei rapporti con vicini quali il Venezuela di Chávez e Maduro, l’Argentina dei Kirchner, il Brasile di Lula e Dilma, l’Ecuador di Correa, e attori internazionali quali Cina, Russia, Turchia, India, Emirati Arabi.
Le decisioni di Morales sono restate sempre all’insegna, tuttavia, di un certo pragmatismo: questo si è declinato nella decisione, per esempio, di procedere alla costruzione di un’autostrada invisa alla comunità locale transitante nella riserva indigena Tipnis, o più recentemente nella collaborazione con il Brasile (primo acquirente del gas boliviano, con i contratti per le forniture in scadenza nel 2019) del filo-trumpiano e anti-comunista Jair Bolsonaro, presenziando alla sua cerimonia d’insediamento e consegnando all’Italia Cesare Battisti (fuggito oltre confine e arrestato a Santa Cruz dopo che il presidente brasiliano ne aveva promesso l’estradizione).
La fase post-elettorale conferma però che la Bolivia continua a soffrire di spaccature etniche e socio-economiche, al di là delle dispute istituzionali. Il Paese può essere diviso grosso modo in due parti. Da un lato le regioni occidentali (tra cui La Paz e Cochabamba) in cui è maggiore il peso demografico indigeno (in primis Amyara e Quechua); dall’altro la regione di sud-est, una “Media Luna” composta dai dipartimenti di Santa Cruz, Tarija, Chuquisaca (nei quali non a caso la maggioranza dei voti è andata a Mesa) e Beni, dove sono ubicati i principali distretti agroindustriali e gasieri del paese (la Bolivia detiene le seconde maggiori riserve del Sudamerica). Si tratta dei tradizionali centri di potere mestizos, minati dall’ascesa di Morales, in particolare le élite di Santa Cruz. Proprio da qui è partita la battaglia contro la retorica sindacalista, anti-neoliberista e indigenista del presidente della Bolivia.
Le critiche puntano il dito anche sui limiti del modello economico – a partire da quelle per gli insufficienti investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi giacimenti di gas (secondo le stime di alcune formazioni d’opposizione, ai ritmi correnti quelli attualmente in uso si esauriranno entro il prossimo decennio) e per la mancata diversificazione dell’economia – e sulle distorsioni dello Stato di diritto. Si va dalla minore pluralità d’informazione e e la scarsa indipendenza del potere giudiziario denunciata dalle opposizioni e da organismi quali Human Rights Watch sino all’aggiramento del verdetto popolare del 2016 contro la sua nuova candidatura, che ha indotto alcuni a parlare di una “venezuelizzazione” della Bolivia.
Il prossimo mandato dovrà gestire una congiuntura segnata dai primi segnali di stress della “evoeconomia” e dalla riproposizione di storiche fratture interne. Il settore delle risorse naturali – anzitutto il litio, di cui in Bolivia sono presenti alcuni tra i principali giacimenti al mondo (non ancora a regime e già nelle mire di Pechino, Mosca, Delhi, Berlino) – necessita di investimenti strutturali, a fronte di mutate condizioni economiche e geopolitiche internazionali. Un panorama che risentirà dei cicli politici ed economici dei vicini, dalle elezioni in Argentina e Uruguay all’attuale fermento in Ecuador, Perù e Cile; dalla perdurante instabilità in Brasile all’agenda politico-elettorale degli Stati Uniti.
Le fazioni antigovernative sono in fermento. Specie nella Media Luna, dove potrebbe riaccendersi la fiamma autonomista sopita dal 2008. La “rivoluzione democratica” di Morales ha dato rappresentanza ai movimenti sindacali, sociali e indigeni, minando i privilegi consolidati basati sulle grandi proprietà terriere, sull’appartenenza etnica e di ceto. Un’economia “pluralista” per una “coesistenza pacifica” fra le diverse anime che compongono lo Stato. Per quanto solida fra alcune fasce della popolazione, la popolarità del presidente è stata inevitabilmente intaccata dalle violazioni della costituzione, dagli scandali, dalla personalizzazione della politica e dalle misure controverse adottate.
L’equilibrio raggiunto finora sarà messo alla prova della gestione di dossier socio-economici nodali e della riapertura di questioni irrisolte che accomunano la Bolivia a gran parte dell’America Latina, nonché delle degenerazioni tipiche dei sistemi politici tendenti all’auto-conservazione.