A dieci anni dalla rivoluzione arancione l’Ucraina è tornata al centro dell’interesse di tutto il mondo. Ancora una volta il cuore della disputa è l’annosa questione dell’orientamento in politica estera. Del resto, il nome Ucraina significa “area di frontiera”: una frontiera che oggi separa le sfere d’influenza di Mosca e Bruxelles. Questa difficile collocazione la sottopone a forti pressioni, mettendo in dubbio la sua stessa esistenza come Stato unitario.
L’attuale condizione del paese si comprende appieno considerando la storia e la geografia del suo territorio. Il tentativo di dare agli ucraini uno Stato indipendente, messo in atto dai nazionalisti nel 1918, fallì sotto l’avanzata dell’Armata rossa. L’Ucraina nacque come Repubblica sovietica, e insieme a Russia e Bielorussia – le altre Repubbliche slave della Federazione – costituiva il cuore dell’URSS. La sua fisionomia odierna è dunque un lascito di Stalin: il primo ad aver riunito tutti gli ucraini in un’unica entità statale.
Dopo lo scioglimento dell’URSS, quei confini hanno finito per delimitare lo spazio “naturale” della nazione. Gli europei hanno ormai familiarizzato con la divisione del paese tra un ovest europeista e un est filorusso. In realtà la situazione è molto più complessa: persino nel profondo est sono le città a presentare una maggioranza di russofoni, mentre nelle campagne si parla prevalentemente ucraino.
In base al censimento del 2001, i russi costituivano il 17,3% della popolazione, ma era il 29,3 a indicare il russo come lingua madre. Giacché la lingua costituisce la componente principale dell’identità, il fatto che un 12% di russofoni si definisse comunque “ucraino” significa che l’identificazione con lo Stato era – ed è – abbastanza forte. E infatti neppure nei momenti di maggiore tensione degli ultimi anni si sono levate voci di rilievo per chiederne la spartizione. La Crimea potrebbe costituire un’eccezione per via della sua incorporazione tardiva (1954) e perché qui i russi etnici sono netta maggioranza.
Al secondo turno delle presidenziali del 2010 – giudicate regolari dagli osservatori internazionali – Yanukovich sfiorò il 49%, dimostrando come la volontà di mantenere stretti legami con Mosca fosse anche più diffusa dell’uso della lingua russa. Del resto, se la Russia ha scelto di mantenere la flotta del mar Nero a Sebastopoli senza fomentare separatismi significa che l’inclusione dell’Ucraina nel mondo slavo orientale è considerata fuori discussione. A opporvisi sono i nazionalisti delle regioni occidentali, fautori di un progetto simile a quello messo in atto nei paesi baltici: dar vita a uno Stato come “proprietà” dell’etnia titolare, e rompere decisamente con Mosca per porsi sotto l’ombrello protettivo della NATO.
È dunque chiaro come la sopravvivenza dell’Ucraina attuale sia subordinata alle sue scelte di politica estera. Per preservare i legami con Mosca nonostante la russofobia dei nazionalisti, Yanukovich ha adottato un atteggiamento “opportunista”: negoziare alternativamente con la Russia e con l’UE. La promessa di una consistente riduzione del prezzo del gas e di un finanziamento di 15 miliardi di dollari a fondo perduto, strappata a Putin nel dicembre scorso, rappresenta un successo in tal senso. L’opzione euro-atlantista impersonata da Yushchenko era invece miseramente fallita, come certifica la percentuale irrisoria da questi ottenuta nelle ultime elezioni. I suoi voti si sono riversati su Yulia Tymoshenko, sua alleata nel 2004 ma più pragmatica e meno compromessa con i nazionalisti.
Veniamo agli eventi degli ultimi mesi. L’errore di Yanukovich di usare la forza contro i manifestanti pacifici dei primi giorni – soprattutto giovani liberali europeisti, minoritari nel paese – ha causato il passaggio del testimone ai nazionalisti radicali. Questi sono definiti anche banderovci, dal nome della loro icona, Stepan Bandera, fondatore dell’esercito insurrezionale ucraino nel 1942: al fine di creare uno Stato “genuinamente” ucraino, questi collaborò con i nazisti contro i sovietici. Yushchenko l’aveva proclamato “Eroe dell’Ucraina”, onorificenza revocata dal suo successore. Secondo i sondaggi, la maggioranza dei cittadini ha un’opinione negativa di questo personaggio.
Grazie alla loro tenacia – da tempo il vecchio continente non vedeva dei patrioti pronti a immolarsi sulle barricate – i radicali hanno comunque costretto il presidente a fuggire da Kiev, e l’opposizione ha potuto nominare un governo provvisorio. La sconfitta di Yushchenko aveva sancito l’impraticabilità della via “baltica”, ma le prime mosse dei vincitori (almeno ad oggi) sembrano nuovamente orientate proprio in tale direzione: legge che abolisce lo status ufficiale della lingua russa – poi ritirata per evitare maggiori tensioni – e assegnazione di posti chiave a esponenti del partito ultranazionalista Svoboda.
Alla fine saranno gli oligarchi – che hanno già cominciato a sconfessare Yanukovich per difendere le proprie rendite di posizione – a decidere il futuro del paese. Tuttavia, la costruzione di una “narrazione” da offrire alle masse è fondamentale per la stabilità. Le città dell’est che scendono in piazza contro i “fascisti di Kiev” dimostrano come quella costruita dall’URSS goda ancora di forti consensi: l’appello alla Russia e l’uso del suo vessillo non vanno interpretati come una richiesta di annessione, ma come un grido d’aiuto in nome della fratellanza slava – un sentimento inscindibile dall’orgoglio per la comune appartenenza passata all’Unione sovietica, che rappresentava una potenza a livello mondiale. Di fronte alla minaccia della separazione dal centro del mondo slavo orientale (rappresentato da Mosca), entra in gioco anche una forte componente spirituale, incarnata dalla Chiesa ortodossa russa, attiva e influente in entrambi i paesi.
Come si è detto, la preservazione dell’Ucraina nei suoi attuali confini non viene messa in dubbio nel paese. Vladimir Putin lo sa bene, e infatti per ora è intervenuto solo in Crimea, una penisola facilmente controllabile, a differenza delle regioni orientali. Si potrebbe replicare qui quanto i russi hanno fatto in Transnistria, dove fin dai primi anni Novanta un conflitto locale è stato sfruttato per sottrarre un territorio al controllo dello Stato moldavo. L’indefinitezza dei confini complicherebbe a quel punto l’avvicinamento all’UE per l’Ucraina; d’altro canto, i potenziali elettori di una formazione filorussa diminuirebbero, favorendo la conferma della coalizione ora al potere a Kiev.
Considerata la concentrazione territoriale dei nazionalisti e dei russofili, si potrebbe ipotizzare di dividere l’Ucraina in due stati più omogenei, liberi di perseguire un’opera di nation building coerente. In questo caso, tuttavia, l’UE si ritroverebbe a dover sostenere una regione povera e priva di industrie. Inoltre, nessuna delle due entità vorrebbe verosimilmente rinunciare a Kiev.
Anche per tali motivi questa strada non è percorribile se non in modo traumatico e con effetti impossibili da controllare. Rimane dunque aperta la questione della collocazione geopolitica. Il progetto incarnato da Yushchenko è stato bocciato alle urne; la proposta di Yanukovich aveva prevalso nel 2010 ma è stata sconfessata dalle piazze. Se si dovesse tornare al voto, la frattura riemergerebbe e, vista la necessità di attuare impopolari riforme per evitare il tracollo economico, chi riuscirà a imporsi sarà probabilmente sconfitto nella successiva tornata elettorale. Intanto, da parte sua Bruxelles non è disposta a offrire un sostegno finanziario incondizionato.
L’affermazione della coalizione tra nazionalisti ed europeisti è stata possibile solo con la pressione delle piazze e aggirando le disposizioni costituzionali sull’impeachment del presidente, dunque non rappresenta una scelta risolutiva: il ribollire delle città orientali – Donetsk, Kharkiv e Dnipropetrovsk – ne mostra i rischi. La popolazione filorussa non permetterà che il paese venga isolato dal mondo slavo orientale attraverso un eventuale ingresso nella NATO.
L’unica opzione capace di garantire una stabilità duratura è rappresentata da una politica estera neutrale, sul modello finlandese: in caso contrario assisteremo a nuove “rivoluzioni” in futuro. Per capire meglio la direzione che prenderà la vicenda ucraina, si devono ora attendere, anzitutto, le mosse della Russia dopo la presa della Crimea e la reazione del governo provvisorio sostenuto dall’Occidente.