Stati Uniti 2020: il ritorno della politica di massa

C’è, nella vita pubblica americana, visibilissimo nella campagna elettorale in corso, un ritorno ai grandi raduni di massa, alla partecipazione fisica, al contatto gomito a gomito delle persone, raccolte in ambienti densi di caldi sentimenti collettivi.  Sembra paradossale che sia così, ai tempi della comunicazione virtuale, dei social media che famosamente isolano (ma forse no) gli individui ciascuno con se stesso; e per molti è una gran consolazione, non c’è più il bowling alone (l’espressione azzeccata del politologo Robert Putnam), la fine della comunità. Sembra anche che sia paradossale e pericoloso, improvvisamente in queste settimane, ai tempi dell’epidemia; ma magari qualche preoccupazione potrebbe venire da altre direzioni, di altra natura, più politiche. Che si tratti di manifestazioni legate a scadenze elettorali non significa che siano eventi occasionali o di stagione, visto che comunque negli Stati Uniti si tengono elezioni a ogni piè sospinto, di un tipo o dell’altro, e che quindi il paese vive stagioni elettorali che non finiscono mai.

“Finiamo una campagna elettorale, facciamo un bagno e cominciamo la prossima”, dicevano i professionisti della democrazia ottocentesca.

E il riferimento all’Ottocento è qui del tutto appropriato, visto che quella era l’età eroica di una politica popolare che pareva dimenticata, così lontana, ricordata solo nelle narrazioni degli storici: l’età dell’oro della partecipazione o, a seconda dei punti di vista, l’età del ferro dell’irregimentazione di massa. Dopo di allora, per un intero secolo, per l’intero Novecento, quelle esperienze fisiche collettive avevano abbandonato la politica mainstream e si erano rifugiate nei movimenti di protesta (sindacali, studenteschi, nazionalisti, delle donne), nei risvegli religiosi e nelle megachurches e nella Black church, nei grandi concerti rock.

Nell’Ottocento le manifestazioni politiche erano un trionfo di fisicità collettiva, di corpi ammassati in strada e in piazza, di atmosfere festive, di parate di partito e di comizi logorroici di piccoli e grandi oratori (la grande oratoria ottocentesca, che abbisognava di frasi rotonde e, essendo unplugged, di potenti polmoni). Queste cose colpivano i visitatori stranieri che vi ritrovavano i tratti carnevaleschi descritti da Karl Marx a proposito delle contemporanee elezioni inglesi: “baccanali di sfrenata degradazione” e “saturnalia nell’antico senso romano della parola”. E affascinavano quelli che volevano farsi affascinare, ne percepivano una dimensione quasi sensuale a cui arrendersi, lasciandosi trascinare e conquistare e assorbire dal “titanico self collettivo” che vi si esprimeva: o così almeno la raccontava il giornalista britannico George Steevens a proposito della gran sarabanda dell’anno presidenziale 1896.

Una vignetta del disegnatore austriaco americano Joseph Keppler restituisce l’atmosfera della campagna presidenziale del 1896. Portato sul trono da una folla scomposta ed entusiasta, il candidato Democratico William Jennings Bryan.

 

“In questo paese”, scriveva, “hanno scoperto gli effetti dello spettacolare e dell’auricolare, e li hanno applicati, com’è loro caratteristica, su vasta scala. Puoi essere insensibile ai ragionamenti; puoi ignorare i tuoi interessi; puoi dimenticarti degli interessi del paese. Ma non puoi fare a meno di vedere e ascoltare ed essere colpito e disarmato da un così imperioso e magistrale appello ai sensi del corpo.”

I rally di Donald Trump e di Bernie Sanders, e in misura minore tanti altri meeting e comizi e town halls di questi mesi e anni (già era stato così nel 2016 e nel 2018), hanno un po’ lo stesso sapore: festose manifestazioni di conferma e amor di sé di una comunità politica, ringhiosi rituali di odio e dannazione degli avversari. D’altronde è in contesti simili, agli albori storici delle nostre democrazie, che queste eccitanti pratiche sentimentali sono nate, non certo nelle bolle, nelle echo chambers dei social media, che ne offrono appena una pallida e fredda imitazione.

Il loro ritorno ha tuttavia una caratteristica particolare rispetto agli antenati di più di un secolo fa, e cioè ruotano tutti e solo intorno all’identità dei candidati, non a quella dei partiti. E nelle loro espressioni più grandiose e affollate, con decine di migliaia di partecipanti, lunghe file d’attesa, cerimonie elaborate con ospiti e menestrelli, ore di intrattenimento, sono costruiti per celebrare personalità presidenziali.

Ed è qui che può sorgere qualche motivo di preoccupazione.

Il caso di Trump è il più evidente, essendo il presidente in carica. Fin dalle prime settimane alla Casa Bianca non ha fatto neanche finta di essere il presidente di tutti. Ha rotto la tradizione, ha subito iniziato la straordinaria serie di rally personali che continua ancora oggi, repliche dei comizi elettorali in cui attacca e sbeffeggia i nemici du jour. Che si tratti di eventi personali, non di partito né istituzionali, gestiti dal suo comitato per la rielezione, è un tratto cruciale. Sono infatti raduni privati, a cui sono ammessi solo i sostenitori, mentre eventuali contestatori sono accompagnati alla porta.

La folla attende Donald Trump a un rally in Iowa, 1 febbraio 2020.

 

Sono raduni che dicono poco di policy specifiche e molto di sentimenti collettivi, i sentimenti infiammati e nudi dei meeting evangelici. In cui il presidente gode dell’acclamazione della folla e nella folla. In cui parla non al popolo americano ma a una parte, la sua parte, la sua America. In cui fa comunione con i suoi fan, li esalta, ne legittima i pensieri e le più faziose intenzioni, li scheda, raccoglie i loro dati e li organizza.

Il caso di Sanders è un po’ diverso, perché i suoi rally appartengono alla tradizionale campagna di un candidato alla presidenza. Detto questo, sono simili a quelli trumpiani per struttura, caratteri popolari e intensità di sentimenti, e sono interessanti in prospettiva. Sanders ha affermato che, se eletto presidente, non farebbe come il Barack Obama del 2009, che di fatto sciolse l’organizzazione che l’aveva aiutato a vincere. Si è trattato di un errore, ha detto il Senatore del Vermont, perché, per realizzare i cambiamenti necessari all’America, c’è bisogno di un movimento grassroots di milioni di persone, organizzato e permanente, che faccia pressione sul corporate establishment e sul Congresso. Appena insediato, ha detto, non se ne starà chiuso nello Studio ovale a negoziare con questo e con quello. Andrà invece in giro per il paese, userà molto Air Force One. Chiamerà gli americani a raccogliersi intorno alla sua agenda.

Bernie Sanders arringa i suoi sostenitori a Manchester, New Hampshire, il 9 febbraio 2020.

 

Il suo mantra conclusivo è questo: “non sarò solo commander-in-chief, sarò anche organizer-in-chief”.

E in che cosa tutto ciò lo distinguerebbe da ciò che fa Trump? La semplice risposta di Sanders è che direbbe cose diverse, cose buone insomma: “Penso che lo scopo di un presidente che parla per il popolo americano, che crede nel popolo americano, sia di mobilitarlo in difesa delle idee in cui già crede. Quindi, se organizzo un rally, non è per attaccare gli immigrati senza documenti o gli afro-americani, non è per cercare di dividere il paese. E’ proprio il contrario: è per unire la gente”.

Trump ha promesso che continuerà con le sue adunanze anche dopo la rielezione, che naturalmente dà per scontata. Sanders, da parte sua, non è affatto certo di conquistare davvero la nomination democratica.

A quel punto, tuttavia, una delle conseguenze del ritorno della politica di massa potrebbe essere questa: una futura presidenza in cui il capo dell’esecutivo si propone, in prima persona, di stimolare e organizzare la mobilitazione popolare a sua difesa e come suo personale strumento. Qualcosa che finora i moderni presidenti americani non hanno pensato di fare, o sono stati riluttanti a fare, o, se così consigliati, si sono rifiutati di fare (come Obama appunto). Forse perché – sospetto – è qualcosa che evoca i regimi autoritari, i regimi spesso etichettati come populisti illiberali.

 

 

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