Speranze e limiti della nuova fase negoziale in Libia

E’ stata un’estate ancor più intensa del solito quella che la Libia si è lasciata alle spalle. Attraversata da una serie di manifestazioni: contro le istituzioni – tanto quelle di Tripoli riconosciute a livello internazionale che quelle parallele di Bengasi, sostanzialmente autoproclamate – ma anche contro il progressivo deterioramento delle condizioni di vita nel Paese. I continui blackout di corrente, ad esempio, hanno costretto gli aspiranti dottori a fare il test di accesso a medicina illuminando il foglio con la torcia del loro cellulare. Una mobilitazione popolare e dal basso che a Tripoli ha portato anche al siluramento del potente ministro degli Interni Fathi Bishaga – anche importante interlocutore del Viminale – con il quale il debole premier della capitale Fayez Al-Serraj è stato alla fine costretto a ricucire su pressione dello sponsor turco.

L’ondata di proteste ha incusso timore alle autorità delle singole regioni, e dunque nei fatti ha ammorbidito le loro posizioni negoziali, facilitando il lavoro della diplomazia che proprio in questi mesi sta facendo piccoli passi da gigante. Il rinnovato interesse statunitense a giocare un ruolo in Libia ha da una parte contenuto l’interferenza sul terreno di Russia e Turchia, principali sostenitori delle due parti in causa, dall’altro ha rafforzato il ruolo negoziale dell’Egitto, attore decisivo delle attuali negoziazioni che hanno avuto come protagonisti anche altri attori regionali.

Le manifestazioni di protesta hanno interessato tutte le principali città della Libia

 

Questa fase è iniziato – il 21 agosto – con il cessate il fuoco raggiunto al Cairo tra Al-Serraj e Aguila Saleh, il presidente del diviso parlamento di Tobruk che negli ultimi mesi è diventato il vero rappresentante politico della Cirenaica, dopo che i grandi sponsor del generale Khalifa Haftar lo hanno nei fatti abbandonato.

Nel frattempo – a Sochi, in Russia – si è sbloccata anche la questione del petrolio, la cui estrazione era da tempo ostaggio proprio di Haftar che non voleva che i proventi dell’export finissero nelle mani di quel governo centrale di Tripoli che – proclami a parte – lui non ha mai riconosciuto. Una mossa quasi suicida per il Paese, che chiudendo i rubinetti ha perso circa 180 miliardi di dollari, secondo una stima diffusa dal governatore della Banca Centrale libica. Con le armi a tacere e i proventi del petrolio nuovamente sul tavolo pronti per essere distribuiti, tornare a negoziare è risultato più facile e anche più conveniente ai tanti che vogliono avere un ruolo nel costruire la Libia che verrà.

La fiammata diplomatica in corso è infatti il risultato dei progressi realizzati dall’inedita triangolazione tra Montreux, cittadina Svizzera dove si è dato da fare l’instancabile Centro per il dialogo umanitario, Hurghada, località del Mar Rosso dove l’Egitto ha voluto mettere al sicuro i suoi interessi soprattutto di natura ideologica militare, e Bouznika, città costiera del Marocco a solo 20 minuti da quella Shkirat dove nel 2015 si firmarono gli accordi per la creazione di un governo di accordo nazionale per la Libia, prima tappa del più ambizioso – e poi fallito – processo di pace. Il tutto mentre a Ginevra sono continuate le riunioni tra le delegazioni della commissione militare mista nel formato “5 + 5”, cinque rappresentanti dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e altrettanti membri del governo di Tripoli, risultato della Conferenza di Berlino dello scorso anno. Gli incontri tra le delegazioni del 5 + 5 hanno portato a siglare, il 23 ottobre, un accordo di cessate il fuoco permanente.

Tocca ora alla Tunisia, il 9 novembre, ospitare il primo incontro del Forum del dialogo politico libico, nei fatti gli ambiziosi colloqui intra-libici più volte programmati, ma poi sempre saltati. Causa Covid, si svolgeranno in una formula ibrida (virtuale e faccia a faccia) e saranno coordinati dall’Unismil, la Missione delle Nazioni Unite che si concentra sulla Libia e che da quando Ghassam Salame si è dimesso è guidata dall’attivissima Stephanie Williams.

Il programma pensato dalle Nazioni Unite prevede elezioni presidenziali e parlamentari nei prossimi 18 mesi; la riforma del consiglio presidenziale e la creazione di un nuovo governo di unità nazionale (mossa facilitata dalle dimissioni che il premier Al-Serraj si è impegnato a dare già a fine ottobre, o quando i tempi saranno maturi per un passaggio di consegne); l’approvazione di una legge di amnistia e la riconciliazione nazionale anche attraverso in ritorno in patria di quanti negli anni sono scappati. Secondo questo disegno, la tanto contesa città di Sirte potrebbe essere la sede temporanea delle nuove istituzioni.

Oltre al calendario politico restano due altri importanti nodi da affrontare: la stesura di una nuova costituzione e la creazione di un esercito, questione da sempre particolarmente spinosa, visto l’abbondanza di milizie che faticano ad accettare l’idea di consegnare le loro armi prima ancora di sapere il loro futuro.

Entrambe le questioni sono molto sentite dal Cairo che durante l’estate ha smesso con i proclami interventisti, puntando tutto sul suo forte potenziale negoziale. Per il Cairo è essenziale che l’esercito libico abbia un DNA simile a quello egiziano, dunque un ruolo forte e una presenza estesa, soprattutto per contenere – quando non addirittura affossare – l’Islam politico, proprio come fatto dall’esercito egiziano a partire dal golpe dell’estate del 2013. Si tratta di un punto molto delicato, dato che la linea egiziana non piace ad altri protagonisti delle trattative come la Turchia, che proprio per questo motivo nell’autunno del 2018 al summit di Palermo si rifiutò di firmare la dichiarazione finale. E’ proprio per questo che ora l’Egitto vuole “dare le carte” a quanti si preparano a scrivere la nuova costituzione: il testo, secondo il Cairo, vista la situazione ancora tutta in evoluzione, deve lasciare spazio alla possibilità di un numero di emendamenti.

Il recente revival diplomatico ha creato un certo ottimismo tra gli analisti che hanno inoltre valutato positivamente il ritorno sulla scena degli Stati Uniti, pur temendo che sia una mossa elettorale e quindi un interesse destinato in fretta a tramontare. Anche se è evidente che gli ultimi progressi hanno creato quello di oggi è un ambiente più propenso al raggiungimento di un accordo, restano una serie di vecchi ostacoli da superare, primo fra tutti la pluralità degli attori coinvolti nel conflitto.

Oltre al generale Haftar – che continua sul terreno ad avere un certo seguito – ci sono i gheddafiani. Le ultime manifestazioni hanno mostrato il seguito di cui godono sul campo ed è anche per questo che sono stati invitati a Montreux, visto che è impossibile disegnare un futuro stato libico solido senza considerare il loro peso. A questa questione si lega quella del ruolo degli islamisti: alcuni di loro inseriti nelle liste terroristiche di ONU e Stati Uniti sono a tutt’oggi leader di milizie che dovrebbero accettare di deporre le armi. Sarebbe un passo necessario per affrontare di petto l’annosa questione della riforma del settore della sicurezza, ingrediente necessario per qualsiasi ricetta di state-building di successo.

Resta poi aperta la partita che stanno giocando le potenze regionali: Algeria, Marocco e Tunisia sembrano ora palleggiare e triangolare, ma anche per loro potrebbe arrivare il momento della partita di Risiko.

 

 

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