Un rebus dalle diverse interpretazioni possibili, dalle soluzioni multiple: il responso delle elezioni spagnole è chiaro e ambiguo allo stesso tempo. Tra i dati incontestabili c’è quello di un sistema politico diventato plurale: un tempo era tipicamente bipartitico mentre oggi è vivacizzato da ben quattro partiti principali che si sono giocati la vittoria. Ma chi di questi ha davvero vinto le elezioni? E su quali basi potrà governare?
Il paradosso spagnolo ci dice che i due partiti arrivati in testa sono anche quelli che più voti hanno perso rispetto alle politiche del 2011. Il Partido Popular (PP), conservatore, del premier uscente Mariano Rajoy, arriva primo; ma quasi quattro milioni di elettori l’hanno abbandonato, e passa dal 44,6 al 28,7% dei consensi. I Socialisti del PSOE, guidati dal nuovo leaderPedro Sánchez, sono la seconda forza, e avrebbero potuto capitalizzare la perdita di voti del PP: ma non è accaduto. Dopo quattro anni di opposizione, il PSOE scende dal deludente 28,7% del 2011, fine amara dell’era Zapatero, a un disastroso 22%; registra così il peggior risultato della sua storia, perdendo due milioni e mezzo di elettori.
Podemos e Ciudadanos hanno accolto gli elettori in fuga da PP e PSOE: l’alternanza tra queste forze, che funzionava dal 1982, si è rotta. Due partiti che quattro anni fa ancora non esistevano ora possono contare rispettivamente sul 20,7% (più di cinque milioni di voti, un risultato oltre le aspettative) e sul 13,9% (tre milioni e mezzo di voti). Podemos (“Possiamo”) e Ciudadanos (“Cittadini”) sono accomunati dalla giovane età: dei loro leader, perché Pablo Iglesias ha appena compiuto 37 anni e Albert Rivera 36; dei loro elettori, che sono in massima parte under 45 e vivono nelle grandi città; delle strutture politiche che li sostengono, ancora fragili, fluide, in rodaggio. Hanno però una storia, un programma, un funzionamento interno molto diverso. Il cambio proposto da Podemos ha le sue radici nei movimenti di indignados che occupavano le piazze spagnole chiedendo un sistema politico più democratico e un sistema economico più rispettoso dei diritti sociali e individuali. Una classe di giovani accademici di scienze sociali decise di costruire un vero partito sopra queste rivendicazioni, che fin lì erano state derubricate a folklore movimentistico – lo stesso Rajoy disse che “quei ragazzi hanno ragione” – ottenendo un successo imprevedibile e rapido. Manuela Carmena, avvocata del lavoro già dai tempi della dittatura, e Ada Colau, attivista nel movimento contro gli sfratti, sono da maggio sindaco rispettivamente di Madrid e Barcellona grazie alla loro candidatura da indipendenti nelle liste di Podemos.
Ciudadanos nasce invece in Catalogna, come forza politica locale di centrodestra contraria all’idea indipendentista. Il salto a livello nazionale è stato deciso solo un anno fa: il potenziale elettorale costituito dai tanti insoddisfatti dal governo, delusi dall’opposizione, non convinti dal tentativo radicale di Podemos, era attraente. Il programma liberale di Ciudadanos piace al mondo della finanza e dell’imprenditoria, e ha trovato sostegno nei media. Non solo spagnoli: a tre giorni dal voto Rivera ha ricevuto l’endorsement dell’Economist e del Financial Times e il sostegno congiunto dei capi di governo di Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovenia, che appartengono tutti al gruppo liberal-democratico al Parlamento europeo, l’ALDE.
Ecco allora il nuovo quadro politico spagnolo: due forze tradizionali che si sono sempre avversate, che hanno sempre incarnato la “destra” e la “sinistra”, nel solco delle famiglie politiche europee; due forze nuove nate e cresciute come netta alternativa a quelle tradizionali – definite casta, vecchia politica, gerontocrazia, sistema corrotto; eppure diversissime tra loro. Nessuno dei quattro partiti dispone di seggi sufficienti per governare da solo, e le intenzioni tattiche – con i possibili allineamenti – non sono state rivelate prima del voto.
Molti avevano previsto, prima del voto, che alla fine la vicinanza ideologica avrebbe prevalso, alla maniera portoghese. Ma i seggi messi insieme da PP e Ciudadanos sul lato destro (163), o da PSOE e Podemos su quello sinistro (159), non bastano per la maggioranza assoluta – a meno che uno dei due gruppi non riuscisse a tirar dentro abbastanza deputati dalle varie formazioni nazionaliste basche e catalane: operazione avventurosa, ma non impossibile, che avrebbe il vantaggio di spingere il nuovo governo ad affrontare subito la questione territoriale e dell’unità nazionale. Se però questa opzione saltasse, le uniche due forze che sommerebbero i seggi necessari a una coalizione di governo sarebbero PP e PSOE (213).
Ma è possibile in Spagna una grande coalizione alla tedesca? Certo, molti fattori giocano contro: un’alleanza del genere non è mai stata tentata nel paese e, come detto, PP e PSOE sono avversari storici e sembrano incompatibili. Ma questa incompatibilità, pur senza scomparire, è più sbiadita che in passato nella considerazione dell’opinione pubblica. A livello internazionale, non c’è dubbio che l’idea piaccia a Berlino e a Bruxelles. Il governo tedesco e la Commissione temono innanzitutto l’instabilità e la possibilità di una deriva greca in un paese per ora fedelissimo alla linea europea, ma pur sempre pieno di disoccupati (21% della forza lavoro), stanco degli innumerevoli casi di corruzione, con poche opportunità per giovani generazioni insoddisfatte.
L’idea è già presente da tempo nelle segreterie dei due partiti spagnoli. L’altra possibilità, cioè un governo di minoranza del PP retto sull’astensione sia del PSOE che di Ciudadanos, sarebbe infatti un travaglio per il partito di Rajoy. Il premier a ogni passaggio parlamentare dovrebbe conquistare il sostegno di due altri partiti, che avrebbero tutto l’interesse a farglielo sudare il più possibile. Un PP incapace di imporsi, in balia dei capricci dell’opposizione vedrebbe dunque a rischio la sua posizione di primo partito che ancora conserva, sia pure indebolita, grazie alla fedeltà delle sue roccaforti in provincia e dei suoi elettori più anziani e affezionati.
La direzione del PSOE, da parte sua, non è per nulla affascinata dall’idea di tornare all’opposizione. Sánchez non controlla in realtà il partito: i capi-corrente lo hanno eletto per nascondere una profonda lotta di potere interna. I Socialisti hanno mantenuto il secondo posto solo grazie ai voti delle popolose province dell’Andalusia, estremo baluardo contro il declino del partito, però le elezioni hanno anche dimostrato che Sánchez non va bene come parafulmine: i quattro anni lontani dal governo non sono serviti a recuperare voti, anzi. Il partito, guidato nell’ombra dalla fazione di Susana Díaz, presidente proprio dell’Andalusia, vuole defenestrarlo, e poi riorganizzare tutto lo schieramento socialista. Meglio compiere l’operazione da una posizione di tranquillità, magari dal governo, piuttosto che farlo mentre il potere è in mano a un partito come il PP che da un momento all’altro potrebbe indire le elezioni anticipate per approfittare delle disgrazie socialiste.
PP e PSOE dunque si controllerebbero e si puntellerebbero a vicenda, aspettando che la ripresa si consolidi e intanto portando a termine quelle riforme (autonomie locali, legge elettorale) che sono state al centro dei dibattiti della campagna. Non è una soluzione semplice; la sua legittimità di fronte al risultato elettorale è scarsa: forse richiederebbe un nuovo primo ministro, più popolare del Rajoy che ha perso quattro milioni di voti e del debole Sánchez, più esterno ai partiti. Un successo, naturalmente, sgonfierebbe le vele di Podemos e Ciudadanos; un insuccesso darebbe invece tutta la ragione a chi vuole rottamare “la casta”. Intanto, vediamo realizzarsi la profezia dell’ex primo ministro Felipe González: “saremo come l’Italia; ma senza italiani”. La disabitudine degli spagnoli a un parlamento ingovernabile, infatti, sarà uno dei fattori da tenere in conto nella risoluzione della crisi.