Nel 1945 Karl Popper definiva “aperta” quella società in grado di coniugare più valori e visioni del mondo in modo plurale, in antitesi al pensiero unico. Da lui abbiamo imparato che in un sistema politico avanzato nessuno “governa” realmente: più partiti propongono più soluzioni pratiche e più strade da percorrere, ognuna diversa e altrettanto valida, in un interminabile scambio di scenari possibili e fallibili.
Eppure, il grande successo dell’intuizione di Popper non è certo dovuto alla scoperta del valore politico della tolleranza, o al rigetto delle diverse forme di intolleranza, quanto più al vero e proprio confezionamento di un metodo quasi ingegneristico di funzionamento della società aperta (c.d. piecemeal engineering). Vale a dire, rimane aperta quella società in grado di applicare rigorosamente il metodo scientifico alla genesi e all’attuazione delle decisioni pubbliche, evitando che queste comportino uno scivolamento in aperti conflitti di sangue. Ecco allora che “il prezzo della libertà” diventa “eterna vigilanza”: cura che l’integrità dei processi decisionali non possa cedere il passo alle persone che essi coinvolgono e di cui essi si compongono.
Affinché questo equilibrio si verifichi, tuttavia, è necessario che una politica pubblica diventi “esperimento” e non “esattezza”; bisogna cioè che venga individuata una metodologia di trasmissione delle informazioni e delle preferenze individuali che metta in relazione “critica” governanti e governanti, in modo che gli uni possano rigettare i tentativi degli altri attraverso la sola aggregazione di un numero sufficiente di giudizi individuali.
Volendo semplificare l’impostazione liberale classica, di queste metodologie ne esistono sostanzialmente due: il voto e il mercato. Il voto assicura che il giudizio del singolo si traduca in punizione/ricompensa delle scelte dei governanti, laddove il mercato si occupa – in buona sostanza – di tutto il resto; diventa cioè il luogo dove gli scambi avvengono alla pari, permettendo alle preferenze e alle necessità individuali dei singoli cittadini/consumatori di formarsi, aggregarsi e disgregarsi senza interferenze esterne.
Il combinato disposto di questi due elementi regge il buon funzionamento delle moderne democrazie liberali. Non è un caso, infatti, che queste conferiscano proprio all’esercizio del voto come dovere civico, o alla custodia della proprietà e delle libertà personali, le tutele costituzionali più alte. D’altro canto, sono proprio gli interrogativi intorno al funzionamento del rapporto Stato/mercato a guidare la ricerca di chi oggi continua a studiare le forme del nostro modo di vivere conosciato nel tentativo di migliorarle, magari vigilando sull’emergenza di nuove insospettabili minacce.
Oggi, nel mondo dei grandi giganti digitali, gestori di piattaforme di social media e algoritmi di profiling, questo impegno significa necessariamente considerare anche quali effetti produca un certo tipo di avanzamento tecnologico sul nostro modo di vivere in società aperta: a nuovi mezzi corrispondono realmente nuovi problemi? Esiste veramente un rischio (o magari un’ opportunità) per la tenuta del modello di democrazia liberale? Che ruolo hanno, in sostanza, le grandi piattaforme di social media in società aperta?
In primo luogo, è evidente che le piattaforme digitali rappresentino l’ultima frontiera della comunicazione politica e dunque di una parte di quel meccanismo democratico di trasmissione delle preferenze. I social in buona sostanza annullano le distanze e abbattono le barriere della condivisione dall’uno ai molti e viceversa, rendendo così obsoleti i media tradizionali – ridotti sempre più spesso al ruolo di vetrine di rilancio del contenuto presente in rete.
Dunque, al di là degli aspetti di lucro commerciale derivato dalla vendita di spazi pubblicitari basati sulla iper-profilazione degli utenti (in funzione della quale, peraltro, il contenuto del messaggio gioca un ruolo assolutamente marginale), ciò che lega a doppio filo l’utilizzo di queste piattaforme alla questione delle società aperte è una questione di trasmissione politica delle preferenze, vale a dire:
- La consegna pubblica/spontanea/volontaria e consensuale di preferenze, intenzioni e agenzia politica da parte degli utenti alle piattaforme di social media.
Questo aspetto non sembra emergere con evidenza dal dibattito pubblico intorno alle nuove forme di regolamentazione delle piattaforme digitali, largamente orientato sui temi di libertà di parola e disinformazione. Per esempio, se domandarsi quale sia l’effetto di un potenziale avvelenamento da fake news delle moderne società aperte rappresenta senz’altro un utile esercizio di vigilanza democratica, esso non non affronta direttamente il carattere bi-direzionale dello scambio utente-piattaforma.
Andrebbe sottolineato, invece, come i contenuti condivisi spontaneamente dagli utenti attraverso i social media consegnino in capo a questi enormi quantità di informazioni frammentate, che una volta ricomposte presentano i caratteri propri della scelta politica: quelli della preferenza e dell’intenzione. Questi due aspetti richiamano gli elementi che fanno del singolo soggetto umano il protagonista dell’ordine liberale di mercato, quel luogo cioè dove l’individuo – che per dirla con Friedrich von Hayek non possiede tutti i mezzi e non conosce tutti i fini – si trova costretto ad esistere in un contesto di mutuo scambio di conoscenze e risorse parziali (cd. di “catallassi”), che solo una volta messe a fattor comune raggiungono risultati specifici. Nel governo della società aperta, questo passaggio si traduce nella funzione tradizionale di “scatola nera” del voto, attraverso la quale transitano e si aggregano giudizi sui tentativi di riforma (o di conservazione o restaurazione) passati e presenti (“preferenze”) o futuri (“intenzioni”).
Non solo. I social media garantiscono ai propri utenti anche nuovi spazi di esercizio della loro agenzia politica: quel ruolo cioè tradizionalmente svolto dai partiti, o per meglio dire da quelle “formazioni sociali” che sono le reali protagoniste delle costituzioni liberali, e in capo alle quali queste consegnano il predicato ‘scientifico’ della sovranità: la facoltà di formulare nuove soluzioni e proposte politiche (appunto visioni del mondo) da esporre all’errore, alla critica e all’inseguimento di problemi sempre più profondi. Questo rovesciamento avviene, ad esempio, nel momento in cui un canale di social media favorisce l’aggregazione di intere piattaforme politiche, che magari trascendono la sola aggregazione di gruppi o individui, per effetto della loro capacità di informare il dibattito pubblico o addirittura di farne parte.
Tuttavia, L’aspetto che rende davvero significativa la condivisione di questo tipo di informazioni attraverso i social media è quello dell’intenzionalità. Vale a dire: la consegna di preferenze, intenzioni e agenzia politica dagli utenti alle piattaforme non viene da queste richiesto; avviene bottom-up, in modo spontaneo (senza stimoli), pubblico (senza censure all’ingresso), volontario (senza obblighi) e consensuale (soggetto a termini di utilizzo la cui violazione comporta la sospensione o l’espulsione dalla stessa piattaforma).
A questo punto, se ciò è vero, viene da chiedersi se alla consegna di preferenze politiche individuali in capo alle piattaforme digitali non si accompagni anche un certo tipo di responsabilità (pubblica) da parte di chi gestisce quegli strumenti. Vale a dire, se il fondamento stesso della società aperta risiede nella capacità delle sue istituzioni di ricomporre il vasto mosaico dei giudizi individuali in forme e proposte politiche (per loro natura) fallibili, è davvero impensabile immaginare che anche quei nuovi spazi digitali, che questi giudizi prendono involontariamente in consegna dai loro utenti, possano in linea di principio vedersi riconosciuto un ruolo sociale di partecipazione alla genesi delle preferenze politiche? Tutto dipende, in effetti, da come questi spazi possono essere definiti, ovvero di quale tipo di responsabilità si tratta.
In prima battuta, infatti, la reazione più logica sarebbe quella di accomunare il ruolo pubblico delle piattaforme di social media a quello della pubblica piazza: un “foro” nel quale esercitare la propria libertà di espressione. Eppure, la piazza appartiene al soggetto pubblico, alla collettività, che ne discrimina l’accesso e il tempo di permanenza esclusivamente sulla base di alcune norme di sicurezza o di buon costume, non certo di ammissibilità di quanto viene detto (in base ai principi di libertà di associazione e di parola). Questo non vale per i social media, i quali mantengono invece inappellabili prerogative di censura del contenuto e di selezione degli iscritti.
Dunque, se non a grandi piazze pubbliche, i social media assomiglieranno a degli editori. Non proprio e non del tutto, però. Un editore, che in questo caso detiene la libertà di selezionare il contenuto – la linea appunto ‘editoriale’ – di quanto debba essere pubblicato, ne è anche responsabile legalmente. Le piattaforme di social media, invece, restano fisiologicamente estranee al contenuto. Anzi, ne sono in realtà indifferenti: ai fini della profilazione degli utenti e della vendita di contenuto promozionale ogni frammento di informazione detiene lo stesso valore relativo.
Vieppiù che se non si può realmente parlare di responsabilità editoriale rimane difficile attribuire alle grandi piattaforme oneri affini, quali quello di garantire un più equo accesso all’informazione – alla stregua di vere e proprie testate giornalistiche – o di di censurare il contenuto poco conforme (chi decide poi cosa è conforme). Allo stesso modo, se è vero che in capo ai gestori delle piattaforme rimane una evidente responsabilità economica di tutela della concorrenza (vedi al centro ad esempio L’Ending Platform Monopolies Act del giugno 2021, ultima bordata del Congresso USA ai grandi gestori digitali) questa non rileva necessariamente ai fini del comprendere quale sia il rapporto profondo tra società aperta e social media.
Ecco allora che i social media iniziano ad assomigliare ad un vero e proprio paradosso politogico (e forse anche costituzionale). Tutti li vorrebbero editori, responsabili del contenuto che i loro network raccolgono, condividono ed indirizzano. Eppure le piattaforme sono le ultime a voler diventare responsabili del contenuto lasciatogli in carico dagli utenti (come mostra il caso Bluesky, la proposta di Twitter di trasformarsi in protocollo per un sistema di social network decentralizzato, che permetterebbe a chiunque di creare il proprio social media ma sterilizzando de facto ogni responsabilità editoriale in capo a Twitter stesso). Se invece esiste una funzione che queste piattaforme sembrano svolgere in qualche misura – senza peraltro farne richiesta – è per assurdo quella del partito o del voto: raccogliere preferenze, intenzioni ed agenzia politica perché vengano consegnate alla politica, diventino cioè parte di quel processo “scientifico” di governo della società aperta basato sulla confutazione di tentativi democratici di riforma e di licenziamento pacifico dei governanti.
A questo punto, vale la pena chiedersi: può la società aperta astenersi dal diventare veramente digitale, adducendo all’interno del tracciato costituzionale quelle funzioni di democrazia che spazi pressoché intangibili e difficili da definire esercitano al di fuori degli schemi tradizionali della vecchia teoria liberale?
A ben guardare, è possibile che una prima risposta (parziale) a questa domanda si celi dietro l’impalcatura regolatoria che entrambe le sponde dell’Atlantico stanno faticosamente cercando di assemblare. Eppure, se assicurare il buon funzionamento del modello di democrazia liberale nell’era digitale è una sfida comune, le posizioni di partenza sono diametralmente opposte: da una parte, l’approccio USA ha preferito – almeno finora – lasciare spazio a spinte di auto-regolamentazione provenienti dal mercato (al netto di evidenti limiti del primo emendamento, che protegge i cittadini dalla censura governativa ma non da quella privata e richiederebbe dunque una seria discussione riformista); dall’altra, la volontà di Bruxelles di “regolare” i BigTech (attraverso progetti di riforma di ampio respiro quali Digital Services Act e Digital Markets Act del dicembre 2020) non può realmente prescindere dalla necessità di creare le condizioni per coltivare un mercato digitale unico (evidentemente scevro da regole troppo stringenti) per favorire la nascita di nuovi “campioni europei”.