La fase acuta del cosiddetto populismo politico che ha interessato l’Occidente negli ultimi cinque anni volge al termine: la presidenza di Donald Trump è finita, e gli Stati Uniti sono tornati ad una sorta di normalità istituzionale, nonostante la forte conflittualità sviluppatasi durante il mandato del quarantacinquesimo presidente; mentre in Europa i partiti euroscettici sono stati tenuti fuori dai governi, oppure costretti a modificare le loro posizioni, come nel caso italiano. Di fatto, la minaccia all’ordine costituito da parte di questi “outsider”, o comunque delle forze che hanno cavalcato il diffuso malcontento verso quelle che si considerano l’establishment o le classi dominanti, sembra essere superata, almeno per ora.
E’ dunque il momento di fare un bilancio, di valutare non tanto il successo dei populisti in termini diretti, ma gli effetti che questi movimenti politici hanno avuto sulla direzione generale dei paesi interessati. Occorre chiedersi infatti se la forte reazione collettiva contro un’élite ritenuta incapace di rispondere alle istanze di una grossa fetta della popolazione, abbia costretto tale élite a rivedere il proprio metodo di azione, e quindi rappresenti un momento di debolezza dell’establishment; oppure se si tratta di una vittoria dei cosiddetti poteri forti, che hanno dimostrato di saper resistere a chi ha minacciato il sistema di governo dominante.
L’establishment, tra correzione e chiusura
A fare un confronto tra la situazione negli Stati Uniti e quella in Europa, non si può che notare una differenza significativa. E’ possibile affermare che negli USA la vittoria di Trump nel 2016 abbia costretto l’establishment ad una correzione di rotta: il successo dei temi populisti ha portato a galla problemi profondi, generando una virata sostanziale che interessa buona parte del sistema politico e istituzionale americano. Nonostante le evidenti divisioni nella società, di fatto si è trovata una sintesi tra le posizioni popolari e la necessità di continuità istituzionale. In Europa, invece, è prevalso il rigetto verso le forze populiste: si è riusciti ad arginare le figure definite estreme, ed evitare che potessero incrinare la traiettoria politica pre-esistente, anzi, rinforzando in modo considerevole la spinta positiva sul tema più contestato da parte delle forze outsider, cioè l’integrazione europea. Rimane da chiedersi quale di questi approcci risulterà vincente nel lungo termine.
L’emergere del populismo negli Stati Uniti è stato il risultato di decenni di politiche che hanno generato crescenti disuguaglianze e un diffuso sentimento anti-sistema tra l’elettorato. L’inizio del processo risale addirittura alla fine degli anni Sessanta, con il cosiddetto “cambio di paradigma” che inaugurò la marcia verso la società post-industriale. Da lì, il processo di finanziarizzazione dell’economia lanciato negli anni Ottanta, ed esploso con la crescita dei mercati speculativi dagli anni Novanta in poi, ha avuto esiti prevedibili, ma che le istituzioni pubbliche hanno voluto in gran parte ignorare: progresso e benessere per una minoranza benestante, ma stagnazione e precarietà per la classe media e bassa. Alla delocalizzazione del lavoro e all’esaltazione di Wall Street si sono aggiunte le guerre nel segno del “cambiamento di regime”, rafforzando l’immagine di una classe politica che seguiva i propri obiettivi e interessi, a scapito del benessere della popolazione in generale.
Presentandosi da outsider alle presidenziali del 2016, Donald Trump è riuscito a legare la difesa dell’economia e la fine delle guerre permanenti al risentimento anche culturale di una parte importante dell’America – a volte in modo improprio – permettendogli di allargare il suo sostegno fino al punto di arrivare alla Casa Bianca.[1]
La svolta americana
Considerando la fine disastrosa della presidenza Trump, con il rifiuto di accettare il risultato delle elezioni del novembre 2020 e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, la tentazione di definire il suo mandato solo in base ai suoi aspetti peggiori è forte; ma nonostante i problemi fin troppo evidenti, la storia non potrà che registrare un’importante svolta nella politica americana in questi anni. I risultati immediati sono stati modesti, ma è indubbio che Donald Trump ha sdoganato il ritorno della politica industriale, provocando un ripensamento ampio del modello neoliberista degli ultimi decenni. Le guerre dei dazi sono state criticate da buona parte degli esperti, ma oggi a Washington è sempre più difficile trovare chi non aderisce al nuovo approccio rispetto alla Cina, ormai considerata un competitore strategico che richiede un rinnovato impegno da parte degli Stati Uniti nel ricostruire le basi della propria forza economica[2].
Il dato fondamentale è che l’agenda populista si è allargata a buona parte del mondo politico americano. Nel Partito Democratico l’ala progressista è molto attiva nello spingere l’intervento pubblico, e tra i Repubblicani cresce la fazione che punta a trasformare il partito nella casa naturale della classe lavoratrice. Ma il cambiamento spicca soprattutto nell’amministrazione di Joe Biden, riflettendo il nuovo corso condiviso nelle istituzioni americane: il presidente ha abbandonato la cautela centrista in merito alla spesa pubblica, puntando ad un intervento trasformativo; ha accelerato l’atteggiamento di fatto nazionalista con le regole sul “Buy American” e la revisione delle filiere produttive da rimpatriare; e si appresta ad impostare una politica industriale che prevede investimenti ampi e mirati nei settori considerati di importanza strategica, in particolare in campo tecnologico.
La nuova impostazione è guidata da più fattori: in primis dalla sfida strategica con la Cina, che richiede uno sforzo urgente per non rimanere indietro nella competizione globale, anche con l’obiettivo di coinvolgere i propri alleati nel contrasto alla crescente influenza di Pechino. Il secondo è la pandemia del Covid-19, che ha mostrato in modo doloroso la debolezza di un sistema di filiere frammentate in cui le nazioni occidentali dipendono da realtà produttive sparse per il mondo. Tutto questo, però, poggia sulle spalle dei problemi socio-economici di lunga data causati dal processo di globalizzazione finanziaria, che hanno facilitato l’esplosione del populismo negli ultimi anni.
Di fatto, gli Stati Uniti stanno dunque inglobando le istanze della protesta negli obiettivi strategici delle istituzioni: si è creata una sintesi che permetterà al paese di affrontare insieme sia i problemi interni sia le nuove sfide strategiche globali.
La continuità europea
L’approccio in Europa è stato diverso. Buona parte dei partiti che hanno adottato posizioni populiste sono stati molto critici sulle politiche e le strutture dell’Unione Europea. Questo ha portato le istituzioni a tracciare una linea netta nel dibattito pubblico: gli euroscettici sono stati considerati portatori di istanze inaccettabili, una minaccia esistenziale per l’Europa. Tanto più dopo Brexit, e nel momento delicato in cui la BCE interveniva per sostenere il debito dei paesi più fragili, fra cui l’Italia. Non sorprende che i due partiti che hanno dato vita al primo governo Conte abbiano rapidamente temperato o abbandonato le posizioni critiche verso l’UE. Oggi, con l’insediamento del governo Draghi, la minaccia italiana all’Europa sembra disinnescata del tutto; perfino la Lega sostiene l’ex-presidente della Banca Centrale Europea, considerato da molti il salvatore dell’euro.
Cosa rimane delle istanze dei populisti, che hanno criticato l’austerità insita nei trattati europei, la ridotta sovranità nazionale nella formulazione delle politiche economiche, e la mancanza di democrazia nelle istituzioni sovranazionali? Poco. L’europeismo sembra aver conseguito una vittoria schiacciante: il processo di integrazione non solo non è stato rallentato o indebolito, è stato almeno per ora rafforzato. Ormai in Italia l’europeismo è condizione essenziale per stare al governo (il tradizionale vincolo esterno è stato così internalizzato). Draghi è stato esplicito nell’affermare “l’irreversibilità della scelta dell’euro”, indicando anche il percorso verso “un bilancio pubblico comune” europeo. Grazie alla decisione dell’UE di emettere debito comune per finanziare gli investimenti dei singoli Stati, si punta a consolidare la scelta di integrare i piani nazionali in un contesto sistemico di politica economica sovranazionale.
Non si può certamente dire che l’Italia, e tanto meno gli altri grandi paesi europei (salvo il Regno Unito, naturalmente) abbiano fatto passi significativi per accomodare le posizioni dei populisti. Piuttosto si è approfittato del momento della pandemia per accelerare verso un grado maggiore di integrazione sovranazionale.
Negli ultimi anni si sono spese tante parole per dissociarsi dagli errori dell’austerità commessi nel nome delle regole europee. Ma a parte la sospensione temporanea del Patto di Stabilità per affrontare la crisi legata al Covid-19, assieme al congelamento delle regole sugli aiuti di Stato, è difficile scorgere un cambiamento fondamentale: rimangono i trattati con i loro parametri monetari e limitazioni sul ruolo pubblico, come anche le raccomandazioni specifiche per i paesi che porteranno presto a nuove pressioni sui bilanci pubblici. Vedremo, insomma, dove porterà il dibattito che si è aperto in Europa sulle regole fiscali: le vecchie divisioni fra Stati membri sono destinate a riemergere, anche se verranno in qualche modo moderate dalla realtà di un debito pubblico che sarà in media superiore, nell’area euro, al 100%. E nemmeno i più ottimisti potranno negare l’inadeguatezza dell’Europa nella gestione del procurement dei vaccini, e il fatto che le prerogative nazionali abbiano prevalso in vari momenti della crisi.
In tutto il mondo occidentale il contesto è diverso rispetto a cinque anni fa: è chiaro che in questo momento servono investimenti, non austerità; si è riconosciuta la necessità di aumentare la spesa pubblica per far fronte alla pandemia, nonostante gli effetti sul debito; e c’è una nuova consapevolezza dei rischi dell’espansione cinese, che cambia la prospettiva sulle politiche commerciali. Tuttavia, in Europa il cambiamento rischia di essere insufficiente e temporaneo, perché è mancato un ripensamento delle strutture e dei principi politici che hanno generato i problemi precedenti; piuttosto si sono rafforzate le istituzioni oggetto delle critiche, respingendo la richiesta di riformarle e rivederne i punti più deboli.
In conclusione, negli Stati Uniti il populismo ha acuito le divisioni politiche e sociali, ma ha anche generato una correzione di rotta rispetto agli errori di decenni di politiche nel segno della globalizzazione; è prevedibile che da questo periodo di incertezza il paese uscirà preparato meglio ad affrontare le nuove sfide globali. In Europa le istituzioni sono state meno flessibili: hanno prevalso nella battaglia con il populismo, ma così facendo hanno mancato di affrontare direttamente i problemi sollevati dalla protesta popolare. E’ probabile che il conto si presenterà di nuovo a breve.
Note:
[1] Un interessante studio di Emily Ekins indica che circa il 40% degli elettori di Trump nel 2016 possono essere classificati come “anti-élite”, “sospettosi dello status quo”, con posizioni progressiste in economia, che normalmente non si sentirebbero “a casa nel partito repubblicano”.
[2] Per una valutazione approfondita dei quattro anni di Trump, e soprattutto degli effetti duraturi sulla politica americana, si veda il libro dello stesso autore: L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro (Mimesis Edizioni, 2020).