Negli ultimi mesi l’attenzione dei media messicani è stata calamitata, come altrove nel mondo, dall’ascesa di Donald Trump; ma il modo in cui il candidato Repubblicano ha portato l’immigrazione e più in generale i rapporti tra gli Stati Uniti e la comunità ispanica al centro della contesa elettorale hanno inevitabilmente suscitato reazioni ancora più forti in Messico.
In marzo il presidente Enrique Peña Nieto paragonò Trump a Mussolini e Hitler – in seguito alla proposta di separare i due paesi con un muro da costruire a spese del Messico e ai suoi riferimenti offensivi agli immigrati messicani, descritti come criminali e stupratori. Anche per questo ha suscitato sorpresa, e una diffusa riprovazione, l’invito rivolto dallo stesso presidente a Trump per la visita nel Paese di fine agosto: secondo molti osservatori, l’incontro bilaterale ha finito per offrire al controverso candidato un’inattesa legittimazione. Enrique Krauze, storico e intellettuale tra i più ascoltati in Messico, ha avuto buon gioco a ritorcere contro Peña Nieto l’analogia storica da lui stesso utilizzata affermando sul New York Times: “You confront tyrants. You don’t appease them”.
Ma questa infelice iniziativa è solo la più recente, e la più superficiale, delle ragioni di difficoltà per Peña Nieto: eletto nel 2012, con l’attuale tasso di approvazione del 23% risulta essere il presidente più impopolare dal 1995, nonché uno dei leader meno apprezzati dell’America Latina secondo un recente sondaggio di Grupo Reforma.
L’aumento dell’insicurezza e l’incertezza della situazione economica sono i principali motivi dello scontento interno al Paese. Da un lato la spirale di assassinii, rapimenti, estorsioni e in qualche caso massacri che sta avvolgendo il Messico – con episodi di particolare efferatezza e di connivenza tra grande criminalità organizzata e apparati dello stato negli stati di Guerrero, Morelos e Tamaulipas – ha causato circa 164.000 vittime tra il 2007 e il 2014: un livello di violenza che trova precedenti solo nella rivoluzione degli anni Dieci del secolo scorso. Dall’altro il paese vive da decenni una fase di crescita di poco superiore al 2% annuo, ottima in base agli standard europei ma piuttosto modesta se paragonata agli altri principali paesi latinoamericani. Momenti decisamente positivi (1997, 2000, 20006, 2010) si sono alternati ad altri di crescita zero (2001, 2013) se non di contrazione (1995, 2009). Analogamente, la crescita del reddito pro-capite è stata più bassa di quella registrata in paesi come Brasile, Cile, Colombia e Perù. 46 milioni di messicani su una popolazione di 122 milioni vivono al di sotto della soglia di povertà (dati Coneval del 2014), mostrando quanto la disuguaglianza sociale sia ancora profondamente radicata.
In questo quadro di crescita insufficiente – o quantomeno intermittente – e frustrazione sociale, più dei toni intolleranti della campagna Repubblicana desta preoccupazione la questione del libero commercio e in particolare il futuro del NAFTA (North American Free Trade Agreement), il trattato di libero scambio siglato con Stati Uniti e Canada che dal suo avvento nel 1994 ha fortemente integrato le tre economie nordamericane. La proposta di Trump di istituire una tariffa del 35% sulle importazioni dal Messico è letta da molti osservatori locali come un’idea assai più perniciosa dell’ipotetico muro. A maggior ragione dopo che anche Hillary Clinton ha inserito nella sua piattaforma una critica ai trattati commerciali del passato, cercando di placare il malcontento dei lavoratori del settore automobilistico americano, e di potenti sindacati come la United Auto Workers, circa gli effetti della delocalizzazione.
Il settore auto è un buon indicatore delle dinamiche messe in atto o accelerate dal NAFTA, e di quella che secondo alcuni è la vulnerabilità dell’economia messicana rispetto all’andamento del mercato nord-americano. Gli operai dello stabilimento Chrysler di Toluca guadagnano mediamente 5 dollari all’ora, cioè molto di più del salario minimo nazionale, che è inferiore a 4 dollari al giorno, ma appena un quinto di quanto percepito dei loro colleghi di Detroit. Nel 2014 il Messico ha superato il Brasile come maggior produttore automobilistico in America Latina. E non si tratta solo di auto. Più di otto avocado e lime su dieci, e circa la metà dei pomodori consumati negli Stati Uniti, provengono dal Messico. L’80% circa delle esportazioni messicane è diretta verso gli Stati Uniti e circa il 35% dei posti di lavoro del paese è legato direttamente al commercio estero.
L’aumento delle esportazioni, da 60 miliardi di dollari nel 1994 a 400 nel 2013, è stato l’effetto più vistoso del NAFTA sull’economia e la società messicana, ma certamente non l’unico. I suoi sostenitori mettono in luce come il trattato in primo luogo abbia permesso un analogo boom delle importazioni, un “effetto Walmart” che ha reso disponibili a milioni di persone beni di consumo precedentemente riservati a una ristretta fascia medio-alta, e in secondo luogo abbia impedito il ricorso a nazionalizzazioni e politiche protezionistiche che spesso in passato si erano intrecciate a una gestione assai poco rigorosa delle finanze pubbliche.
I suoi detrattori puntano il dito sugli esigui risultati in termini di crescita e riduzione delle disuguaglianze, evidenziati dal massiccio flusso migratorio verso Nord. Tra il 1994, anno di entrata in vigore del trattato, e il 2013 il numero di messicani residenti legalmente o meno negli Stati Uniti è salito da 6.2 a 12 milioni, un dato ancor più rilevante alla luce del drastico calo dell’offerta di lavoro negli Stati Uniti dovuto alla recessione e poi dell’espulsione verso il Messico di quasi un milione di irregolari operata dall’amministrazione Obama tra il 2008 e il 2012.
In un rilevamento Buendìa y Laredo dello scorso luglio il 52% degli intervistati si è detto contrario all’ipotesi che il Paese abbandoni il trattato, mentre il 33% sarebbe favorevole alla “Mexit”. Intanto, l’establishment finanziario è decisamente atterrito dalla prospettiva che una vittoria di Trump possa portare alla messa in discussione del NAFTA e a una revisione in senso protezionista della politica commerciale statunitense: “Trump è un uragano devastante, soprattutto se farà cosa ha promesso” ha affermato il presidente del Banco de México Augustìn Carstens, anche alla luce del preoccupante andamento della quotazione del peso, calata del 25% nell’ultimo anno.
Nella società messicana convivono atteggiamenti assai diversi, accomunati però dalla consapevolezza della crescente interdipendenza, quasi dell’intimità del rapporto tra i due paesi, che il NAFTA ha accresciuto ma le cui radici affondano nel passato. Al di là dell’ambito diplomatico delle relazioni bilaterali tra Città del Messico e Washington e di quelle multilaterali all’interno delle organizzazioni interamericane, molti capitoli del dibattito interno statunitense (commercio e immigrazione in primis, ma anche lotta alla droga e leggi sulle armi, riforma del sistema penale, energia e ambiente) avranno ripercussioni a Sud del Rio Grande. Lo si è visto nei due mandati di Obama, dei quali si è apprezzato il cambio di atteggiamento nei confronti della “guerra” ai cartelli del narcotraffico (con una minore enfasi sulle misure repressive) e la recente apertura al transito dei camionisti messicani attraverso la frontiera assai più dei risultati limitati in tema di immigrazione.
In un quadro di crescenti flussi transnazionali di persone, merci e capitali attraverso un confine che è inevitabilmente poroso, nonostante i muri già esistenti e quelli promessi o minacciati in questa campagna presidenziale, la distinzione tra la politica estera degli Stati Uniti e aspetti rilevanti della loro politica interna ha ormai un significato relativo per milioni di messicani, così come per la classe dirigente del paese. I due Paesi, in effetti, sono per molti versi sempre più vicini.