La forza di volontà e l’accettazione del rischio sono fattori che possono determinare il risultato, ma sono anche gli elementi più ardui da quantificare. Questa dimensione personale e caratteriale, cioè il rapporto al vertice Trump-Xi, si è intensificata negli ultimi mesi: una controversia commerciale (che poteva essere gestita anzitutto in chiave tecnica) si è trasformata ormai in una specie di braccio di ferro, in cui è in gioco il prestigio dei “capi” oltre che gli interessi nazionali. In particolare, l’ossessione trumpiana per le “vittorie” negoziali complica la prospettiva di un accordo, poiché un Paese come la Cina non accetterà di presentare in questi termini l’esito delle trattative tuttora in corso. Il Presidente americano dovrà necessariamente tollerare una sorta di pareggio se vorrà intascare un’intesa da rivendere al suo elettorato – magari raccontandola come una “mezza vittoria” o comunque un tangibile vantaggio conseguito.
C’è poi lo stile peculiare con cui Donald Trump fa politica, fondato su brevi dichiarazioni, spesso incendiarie, al di fuori di una strategia di comunicazione condivisa con la sua squadra di consiglieri e negoziatori. Rispetto a Pechino tale approccio ha avuto un effetto probabilmente indesiderato e paradossale: in particolare, un tweet del Presidente potrebbe aver confermato i sospetti (o per meglio dire, le speranze) cinesi sull’intenso desiderio americano di raggiungere comunque un accordo, per quanto parziale e non del tutto soddisfacente. Riprendendo una ricorrente critica diretta alla Federal Reserve, un messaggio del 30 aprile notava che il governo di Pechino sta tenendo bassi i tassi di interessi e stimolando l’economia, mentre appunto la banca centrale americana agisce – a dire di Trump – in modo troppo prudente. Di fatto, nell’affermazione si può leggere il timore per un rallentamento americano, e dunque anche il desiderio di trovare un’intesa bilaterale. L’effetto controproducente non deve essere sfuggito a Washington: un altro tweet presidenziale del 14 maggio ha ripreso il concetto tentando stavolta di sottolineare i punti di forza dell’economia USA (se soltanto la Fed seguisse la linea “espansiva” del Comandante in Capo) e che sono i cinesi a volere quasi ad ogni costo un accordo.
Il quadro di questa pericolosa partita si completa con i metodi decisionali di Xi Jinping, di cui certamente sappiamo assai meno come osservatori esterni ma che sembrano comunque essere fondati su una cerchia ristretta di fidati collaboratori. Anche sul versante cinese, dunque, c’è un costante rischio di “group think”, cioè di conformismo intellettuale che di fatto riflette o perfino amplifica le preferenze personali di chi è al vertice del potere esecutivo.
C’è anche la possibilità, da non sottovalutare, che Trump e alcuni dei suoi collaboratori (per ora) più fidati vedano ormai nei dazi uno strumento “stabile” di politica economica – e di politica estera, ancor più ampiamente. Non sarebbero più una semplice leva negoziale (per sua natura temporanea e tattica) ma invece un’arma di facile utilizzo che è opportuno “normalizzare”. Il freno più efficace per impedire che si vada a tutta velocità in questa direzione potrebbe essere esercitato dalla comunità imprenditoriale americana, che in maggioranza considera i dazi come una tassa sul business americano (giustamente, perché tali sono) e di riflesso (potenzialmente in pari misura) sul consumatore. Va sempre ricordato infatti che i dazi non sono sanzioni imposte su persone fisiche o giuridiche cinesi, e tanto meno sul governo di Pechino. L’altro freno (di cui è difficile valutare però l’efficacia) sarebbe la comunità internazionale, che pur condividendo molte critiche alle politiche cinesi guarda con enorme preoccupazione a un netto rallentamento della crescita globale. Il dato da ricordare è che la Cina è responsabile di circa un terzo della crescita economica mondiale.
Come noto, la giustificazione addotta dal Presidente Trump per l’imposizione dei dazi è poco coerente: un giorno si punta il dito contro i surplus commerciali cinesi in sé (contro il parere della stragrande maggioranza degli economisti), e il giorno successivo si accusa il governo di Xi Jinping di violare le regole sulla proprietà intellettuale (cosa acclarata ma ben diversa); intanto, sullo sfondo si lascia intendere che il vero obiettivo cinese sia spiare e danneggiare l’America, cioè attrezzarsi per una specie di nuova guerra fredda a tutto campo. Il guaio è che i tre fenomeni sono sì importanti e anche contigui, ma andrebbero valutati con metri distinti e comunque gestiti in modi meno superficiali.
A collegare questi filoni c’è il dossier della capacità digitale e della cyber-competizione (che speriamo non debba già definirsi una vera “cyber war”): qui gli sviluppi più recenti confermano la centralità del settore digitale (soprattutto l’intelligenza artificiale) nel possibile riassetto geopolitico globale. Inevitabile dunque che le due superpotenze di oggi si contestino la supremazia in quello specifico settore “multi-funzione”. Ciò che non appare inevitabile è però il modo in cui si compete.
Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo a metà maggio a tutela dei network digitali americani da “avversari stranieri” (senza menzionare espressamente la Cina, anche se subito si sono avviate misure contro Huawei). Questa è peraltro la quinta “emergenza nazionale” dichiarata dal Presidente in carica e consente agli organi esecutivi di intervenire direttamente, aggirando gli ostacoli legislativi ordinari, in nome appunto della sicurezza nazionale. Alzare la posta sul piano della sicurezza può avere senso per mobilitare l’opinione pubblica e attivare tutti gli strumenti istituzionali a disposizione del governo americano, ma ciò solleva un quesito relativo agli obiettivi di fondo: siamo certi che agli Stati Uniti convenga mettere la Cina in un angolo, lasciando aperte le due sole opzioni “concessioni commerciali” oppure “guerra fredda”? Il rischio è che sul piano commerciale Pechino diventi ancora più mercantilista di quanto non sia già, e intanto trasformi le sue ambizioni economiche (ora ostacolate frontalmente da Washington) in una strategia politico-militare ancora più assertiva per combattere davvero una nuova guerra fredda – che forse non vuole.
In sostanza, esistono ancora opzioni alternative per gestire la rivalità USA-Cina: non va mai dimenticato che la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica era caratterizzata da una limitatissima interdipendenza economica – come ha sottolineato The Economist, gli scambi bilaterali ammontavano poco prima del crollo del Muro di Berlino a circa 2 miliardi di dollari l’anno, mentre l’attuale interscambio sino-americano è pari alla stessa cifra ogni giorno. Su queste basi, è essenziale tenere presente come funziona realmente l’economia globale del XXI secolo, e come alleanze e organismi internazionali possono risultare utili a gestirla. L’amministrazione in carica a Washington sembra averlo dimenticato. Potrebbe così trovarsi, paradossalmente, a lavorare con la Cina nel distruggere l’ordine mondiale che conosciamo.