Se si usa la forza ma nessuno vuole davvero la guerra: i paradossi di Gaza

Sono alcuni mesi, ormai, che di nuovo, si parla di Gaza. Perché a Gaza, di nuovo, si muore. Era dall’estate del 2014 che non si registravano così tante vittime. Eppure, quello che il resto del mondo, in questa estate 2018, segue con apprensione, sembra essere piuttosto una singolare forma di comunicazione: Hamas spara i suoi razzi la sera tardi o la mattina presto, quando al più, colpisce cose, non persone, mentre Israele, da parte sua, mira essenzialmente a edifici vuoti. O strutture militari. Come in una specie di alfabeto Morse. Più che un reciproco aggredirsi, è un reciproco misurarsi.

Un missile lanciato da Gaza

 

Domandate a chiunque, qui, israeliano o palestinese: dirà che una nuova guerra è inevitabile. In fondo, apparentemente, dall’ultima, niente è cambiato. Gaza è ancora isolata. E l’80% dei suoi abitanti ancora dipende dagli aiuti umanitari, e il 50% è ancora food insecure, nel gergo dell’ONU – uno su due ha fame. Non c’è più neppure l’acqua, a Gaza. Solo acqua salata. Acqua di mare. Resti appiccicaticcio tutto il giorno. E ogni tanto, un F-16 arriva e bombarda.

Ogni tanto, all’improvviso, muori.

Ma in realtà, in questi anni è cambiato tutto, qui. E adesso, nessuno ha interesse a un’ennesima guerra. Non certo Hamas, che è al governo ma è in bancarotta. I suoi tunnel, su cui aveva via via costruito un’intera economia, sono stati bombardati da Israele, o allagati dall’Egitto. E a causa dei suoi legami con l’Iran, ha perso il sostegno dei ricchi paesi del Golfo. Ora, poi, Hamas è pressata persino dall’Autorità Palestinese, che dominata da Fatah non paga più gli stipendi dei funzionari pubblici, non paga più l’elettricità (che è fornita da Israele), trattiene farmaci di base nei magazzini della West Bank: e nemmeno spende a Gaza le tasse che riscuote da Gaza – per costringere così Hamas a cedere il potere. Nonostante per i palestinesi ogni responsabilità, naturalmente, sia prima di tutto di Israele, Hamas sa che il suo consenso è ai minimi storici. Ripete di essere stata regolarmente e democraticamente eletta, ed è vero: ma 12 anni fa.

E però per la prima volta, e forse è questa la novità vera, è anche Israele a non avere interesse a un’altra guerra. Perché la sua priorità, ora, è l’Iran: è il fronte siriano. In cui Hezbollah, in questi anni, si è armata e addestrata. E rafforzata. Non è più un segreto: dal 2011, Israele ha effettuato oltre 100 bombardamenti in territorio siriano. Per eliminare armi, e ora, anche i loro ideatori: il 4 agosto, ha infine assassinato Aziz Asbar, uno dei principali ricercatori militari del regime di Assad.

Per quanto abbia il nucleare, infatti, Israele resta estremamente fragile. La sua vulnerabilità sta nella geografia: è un paese piccolo, con infrastrutture che sono concentrate in poco spazio. E che possono essere centrate con pochi missili. Un tempo, la sicurezza era questione di zone cuscinetto lungo i confini: ma oggi non è più questione di carrarmati. Secondo l’intelligence statunitense, Hezbollah ha già 100mila tra missili e razzi, dieci volte di più che nel 2006, l’anno dell’ultimo scontro. Potrebbe spararne oltre mille al giorno: una grandinata contro cui il sistema difensivo israeliani, Iron Dome, sarebbe in difficoltà. Ma soprattutto, quei 100mila includono Fatah-110 di fabbricazione iraniana, capaci di individuare un bersaglio con un margine di errore di poche centinaia di metri.

Finora, Israele ha fronteggiato missili abbastanza artigianali, privi di sistemi di guida. E che quindi, come ha scritto il reporter e analista David Kenner, possono generare panico, ma non essere decisivi. Israele teme non tanto la forza di Hezbollah, quanto la rapidità a cui quella forza sta crescendo. Cosa che rende inevitabile una nuova guerra, sì. Ma in Libano.

E’ dunque evitabile una guerra a Gaza. Tanto più che una nuova guerra, qui, sarebbe la quarta in dieci anni. E ormai, sia Israele sia Hamas hanno capito che è inutile. Con le tre precedenti, Hamas non ha ottenuto niente. Letteralmente. Solo morti e macerie. Non ha ottenuto neppure un miglio di mare in più per i suoi pescatori. Ma per Israele, vincere sarebbe persino peggio che perdere: l’ultima cosa a cui mira, è riconquistare Gaza, e accollarsi un’altra volta 1,8 milioni di palestinesi.

Il problema è che il momento in cui la pace è più probabile coincide anche sempre, con esattezza, con quello in cui la guerra è più probabile. Perché è il momento in cui i falchi hanno più incentivo a giocare d’azzardo. Come i tanti, in Hamas, vicini a Hezbollah, che pensano che a questo punto abbia senso resistere e aprire un secondo fronte. E i tanti, in Israele, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che pensano che a questo punto abbia senso insistere e sbarazzarsi definitivamente di Hamas. Ma soprattutto, il rischio a Gaza è l’incidente. Perché mentre Israele ha una tecnologia avanzata, e calibra al millimetro i suoi bombardamenti, Hamas ha già sfiorato più volte la strage. Se avesse sparato mezz’ora dopo il razzo che ha sparato all’alba del 19 giugno, e che è finito nel cortile di un asilo, sarebbe stata guerra totale. Vendetta totale. Senza più spazio per alcuna analisi. Alcuna razionalità.

In realtà, dunque, ia Israele sia Hamas non hanno interesse a una nuova guerra; ma dopo 11 anni, non hanno neanche più interesse all’assedio. Hamas, per ovvie ragioni. Ma anche Israele. Perché solo riaprendo i confini di Gaza, può iniziare a costruirsi quel riconoscimento, quell’accettazione sul piano internazionale che è il suo vero obiettivo. Il vero terreno su cui combatte la sua battaglia.

E per una volta, le carte per negoziare sono tante. Hamas ha da offrire il cessate il fuoco, due ostaggi, e i resti di due soldati. E Israele, la normalizzazione delle frontiere. E in più, lavoro nelle sue imprese, sempre a corto di manodopera. Per una ripresa immediata dell’economia di Gaza. Anche se è la comunità internazionale, in realtà, ad avere le carte decisive: un’iniezione di capitali per le infrastrutture, e per la creazione di questa zona industriale nel Sinai di cui si discute ormai da tempo, e che garantirebbe a Gaza un’economia reale. Non solo consumare, ma produrre.

Ma soprattutto, solo la comunità internazionale può esercitare pressione sull’Autorità Palestinese, che finanzia lautamente: e che dovrebbe affiancare Hamas al governo di Gaza, e invece, tentenna, ed è il principale ostacolo all’accordo. Perché non sono solo i falchi di Israele a pensare che questo è il momento migliore per sbarazzarsi di Hamas.

Per ora, comunque, fuori da Israele e Palestina sono tutti fermi in attesa di questo misterioso Deal of the century che sarà proposto dagli Stati Uniti. E che dovrebbe essere mediato da Jared Kushner – il genero di Donald Trump. Di professione mediatore, sì: ma al più immobiliare.  Tutti parlano di una nuova guerra. Mentre israeliani e palestinesi parlano di pace.

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