Se le ragioni della sicurezza e dell’economia divergono per gli USA

Gli Stati Uniti corrono un rischio potenzialmente grave per la loro proiezione globale: il rischio di uno scollamento tra le ragioni della sicurezza (nazionale e del sistema internazionale) e quelle degli interessi economici. Ciò potrebbe produrre effetti che al momento non è facile valutare.

 

Per fare un esempio banale, la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale serviva sia alle ragioni della sicurezza nazionale – evitare che il “Rimland” occidentale, quell’area che bordeggia il cuore dell’Eurasia e che corrisponde appunto al continente europeo, cadesse sotto una potenza ostile – sia alle ragioni dell’economia – avere dei “vicini transatlantici” prosperi con cui commerciare. Di qui, tra l’altro, l’apertura dell’immenso mercato americano ai grandi esportatori, a cominciare da Germania, Giappone, Italia (proprio le potenze sconfitte). E poi alla Cina, quando progressivamente dagli anni ‘80 si è trattato di applicare la stessa logica, ma sul “Rimland” orientale dell’Eurasia, per attirare Pechino nell’orbita dell’Occidente.

Questo approccio nei confronti della Cina ha funzionato fino a un certo punto. Fino a quando cioè ci si è resi conti che i liberi commerci non producevano automaticamente una svolta in senso liberale di Pechino e che anzi la leadership cinese usava la ricchezza prodotta dai commerci per rafforzare la propria autocrazia. Solo allora le cose a Washington hanno iniziato a cambiare. Il primo passo è stato il tentativo di siglare la Trans Pacific Partnership (TPP), vale a dire un accordo commerciale internazionale voluto dall’amministrazione Obama che coinvolgeva dodici paesi dell’Asia-Pacifico, tra cui gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia.

L’obiettivo del TPP era di creare un’area di libero scambio che coprisse l’Asia-Pacifico, favorendo gli scambi commerciali e la crescita economica tra i paesi coinvolti. La particolarità era che non coinvolgeva quella Cina, cioè proprio il grande Paese che gli Stati Uniti avevano fatto di tutto per portare nel WTO, con il pieno ingresso nel dicembre 2001.

E infatti, l’amministrazione Obama vedeva il TPP non solo come un modo per rafforzare la presenza degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico e per contrastare direttamente la crescente influenza della Cina in questa regione; ma anche per sottrarre i Paesi della regione all’influenza cinese, offrendo un mercato di sbocco alle loro merci, diverso da quello cinese. In altri termini, si trattava di sottrarre quei Paesi al ricatto politico di Pechino (entrare nella sua sfera di influenza) fatto con strumenti economici (accesso al mercato cinese).

Donald Trump ha abbandonato la Trans Pacific Partnership nel 2017, proprio all’inizio del suo mandato presidenziale. La motivazione principale era che il Presidente riteneva che l’accordo non fosse vantaggioso per gli Stati Uniti e che avrebbe danneggiato l’economia americana, specialmente l’industria manifatturiera. Si trattava, nella narrativa trumpiana, di proteggere i posti di lavoro americani, per poi negoziare accordi commerciali bilaterali più favorevoli per gli Stati Uniti, cosa che riteneva non fosse possibile nell’ambito del TPP.

Una prima ragione di questo cambio di rotta americano va probabilmente individuata in una nuova consapevolezza, maturata nel trumpismo populista prima di essere oggi patrimonio di tutta la politica americana. Cioè, il valore elettorale della difesa della classe media e dei posti di lavoro in industrie mature nel comparto manifatturiero dalla concorrenza di Paesi meno sviluppati degli Stati Uniti.

Ma è probabile che le ragioni del populismo abbiano trovato terreno fertile nelle logiche che stanno muovendo i processi di reshoring e nearshoring, vale a dire portare in patria, o vicino, processi produttivi che prima erano all’estero – anche presso l’amministrazione Biden. Per inciso, questo non significa affatto il ritorno dei posti di lavoro della classe media spariti negli anni Novanta.

Ed è qui che, probabilmente, si nota il fenomeno di cui si diceva prima, e cioè che l’interesse strategico americano (sottrarre alcuni Paesi in Asia dall’influenza cinese) non coincide più con l’interesse economico americano di delocalizzare altrove la produzione, visti i processi di reshoring in atto.

 

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A questo punto si tratta di capire come le diverse esigenze economiche (almeno in prospettiva) incideranno sulle esigenze strategiche americane. È possibile che l’impegno di Washington a difendere i suoi alleati in Asia e in Europa non venga influenzato in modo significativo dai processi dalle ristrutturazioni in corso nelle supply chain globali.

Senza dubbio, le questioni di sicurezza e di difesa sono di importanza strategica per gli Stati Uniti, indipendentemente dalle relazioni economiche e commerciali con i loro alleati, ma ci si chiede se questo sganciamento in atto non crei problemi interni in termini di consenso. Per dirla diversamente, nel momento in cui gli interessi economici vanno in una direzione e quelli strategici in un’altra, come si aggrega il consenso interno per sostenere scelte di politica internazionale poco spendibili in campagna elettorale? Con l’avvicinarsi delle presidenziali 2024, il quesito diventa urgente e centrale.

 

 

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