Nell’incontro esecutivo del 3 febbraio, il Consiglio di Stato cinese ha chiesto un’accelerazione sulle riforme istituzionali interne così da facilitare l’implementazione del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Presieduto dal Premier Li Keqiang e composto dal Vicepremier, dai consiglieri di stato, dai ministri, dal Revisore Generale e dal Segretario Generale, il Consiglio di Stato è più alto organo amministrativo della RPC. In quanto tale ha, tra gli altri, il compito di adottare ed implementare atti amministrativi; di elaborare piani per lo sviluppo economico-sociale del Paese; e di sottoporre proposte di legge all’Assemblea Nazionale del Popolo, a cui deve rispondere.
È la terza volta che questo organo si riunisce per deliberare sulle possibilità di realizzazione dell’accordo. Ma perché è così importante? La Cina come altri paesi ha subito gli effetti della pandemia da Covid-19 soprattutto per le problematiche sorte dal malfunzionamento della supply chain, con problemi sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta. I dati negativi non riguardano solo la Cina ma l’Asia in generale. Il World Investment Report 2020[1] pubblicato dalla Conferenza sul Commercio e lo Sviluppo dell’ONU (UNCTAD) ci mostra che i flussi di investimento subiranno una decrescita in tutta l’area. Si prevede, inoltre, che gli investimenti diretti esteri (IDE) verso l’Asia diminuiranno del 30/40%.
Per il Ministro cinese del Commercio Wang Wentao l’unico modo per rispondere a queste sfide è cercare l’interconnessione con gli altri paesi creando un “circolo di amici”. L’allargamento del network di partner commerciali passa quindi attraverso la conclusione di accordi multilaterali. L’attenzione al multilateralismo non è nuova per la Cina, che oggi ne fa risaltare l’importanza proprio nel contesto della crisi sanitaria ed economica dovuta al Covid-19. A livello retorico è chiaro che la posizione cinese attinga dal pensiero degli idealisti liberali: la cosiddetta Realpolitik è una “giungla” in cui domina il più forte e il più scaltro. Diversamente, creando una cooperazione istituzionalizzata tutti possono interagire sullo stesso piano creando una sorta di “zoo”, in cui il più forte è costretto da leggi e norme. Le istituzioni, quindi, hanno il potere di sanare la mancanza di fiducia tra gli stati. Parafrasando le parole di Joseph S. Nye, Jr. “le istituzioni aiutano a creare un clima in cui le aspettative di pace crescono”.
Da qui la superiorità, secondo Pechino, dell’approccio multilaterale, che il presidente Xi Jinping non manca di ricordare anche nel suo discorso all’apertura del World Forum di Dallas[2] lo scorso 25 gennaio. Il presidente cinese afferma che nell’affrontare il futuro è necessario intensificare la coordinazione in politica macroeconomica, dato che nessun problema globale può essere risolto dal singolo paese. Continua poi sottolineando come tradizionalmente il pensiero cinese considera la legge come vero fondamento del governare. Per questo motivo, le relazioni internazionali dovrebbero basarsi su leggi e consenso raggiunto da tutti e non dall’ordine stabilito da uno o pochi paesi. Xi ricorda poi che i principi che regolano le piattaforme multilaterali dovrebbero essere preservati e le regole, una volta fatte, dovrebbero essere seguite da tutti. Con la volontà di realizzare questo obiettivo, la Cina ha posto la sua attenzione soprattutto verso l’Europa e l’Asia-Pacifico.
Fin qui, quella che potremmo definire un’esposizione “accademicamente corretta” della tesi a sostegno del multilateralismo, ponendo ovviamente la Cina al centro del sistema nel XXI secolo. Vediamo però il perseguimento pratico di questa impostazione.
Per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, dopo sette anni di negoziati, lo scorso 30 dicembre l’Unione Europa e la Cina hanno firmato il Comprehensive Agreement on Investment (CAI). La sua entrata in vigore non è ancora effettiva perché necessita dell’approvazione definitiva del Parlamento Europeo. Nonostante alcuni dubbi soprattutto sull’implementazione di quanto pattuito, i diritti umani e i possibili effetti che potrebbe avere sulle relazioni con gli USA, questo accordo potrebbe assicurare una svolta per gli investitori e imprenditori europei. Infatti, il CAI prefigura ulteriori aperture del mercato cinese al fine di permettere una concorrenza equa tra le aziende a proprietà cinese ed europea. Altro dato da tenere in considerazione è la semplificazione burocratica: il CAI andrà a sostituire i 25 accordi bilaterali di investimento che la Cina ha concluso con 26 dei 27 membri dell’UE. Ciò che rimane dubbio è l’effettivo impegno della Cina a dare attuazione ad alcuni impegni presi sul piano formale: implementazione dell’accordo di Parigi e la ratifica della convenzione ILO sulla forza lavoro. I più critici ritengono che soprattutto quest’ultimo punto sia difficile nella sua realizzazione dato che la Cina tuttora è priva dell’istituzione del sindacato.
Per quanto riguarda l’Asia-Pacifico, il 15 novembre ad Hanoi, la Cina insieme a 15 paesi (Australia, Brunei, Cambogia, India, Indonesia, Giappone, Laos, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Tailandia e Vietnam) ha concluso il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). I numeri che lo caratterizzano sono notevoli: coinvolge più di 3 miliardi di persone, un PIL aggregato di 26.200 miliardi di dollari, mettendo insieme il 40% del commercio mondiale. Secondo l’UNCTAD[3] la crescita del Pil aggregato di questa area si attesterà allo 0,2% entro il 2030 e la crescita delle esportazioni al 10% entro il 2025. Inoltre, l’RCEP eliminerà 85/90% delle tariffe al commercio interne alla nuova area. Altro punto cardine sarà la riallocazione degli investimenti per rispondere all’esigenza di differenziare le supply chain, che prima ruotavano eccessivamente proprio intorno a Pechino.
E’ un nodo collaterale da sciogliere per la Cina, che entro il 2030 aumenterà il reddito legato al RCEP (100 miliardi di dollari), è quello legato alle imprese di proprietà statale. Saranno necessari importanti sforzi di riforma interna per ottimizzare l’assetto e la struttura della porzione di economia di proprietà dello stato. A questo proposito, il 31 gennaio la Cina ha svelato un piano di azione per la costruzione di un sistema di mercato di alto livello, che prevede in 5 anni l’implementazione di oltre 50 misure che coprono cinque aspetti, tra cui il meccanismo di controllo del moderno sistema di mercato. Questo implica l’impegno della Cina verso misure meno restrittive sul mercato dei servizi finanziari, la possibilità di stabilire joint-venture controllate dall’estero (banche e società di intermediazione immobiliare), così come società di asset management di proprietà straniera.
Altrettanto rilevante è l’affermazione del presidente Xi Jinping, durante il summit virtuale dell’APEC, di considerare favorevolmente l’adesione al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTTP). Questo accordo è stato concluso nel 2018 da 11 paesi (Australia, Brunei, Daryssalian, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru Singapore e Vietnam). Le negoziazioni originali prevedevano anche gli USA che però durante la presidenza Trump si sono ritirati dall’accordo. L’obiettivo del CPTPP è quello di promuovere l’integrazione e la cooperazione regionale attraverso la liberalizzazione del commercio. I membri insieme costituiscono il 13% del PIL globale. Con la Cina, il CPTPP coprirebbe quasi il 28% del PIL globale. Attualmente, il CPTPP genera un reddito globale stimato in 147 miliardi di dollari all’anno. Se la Cina dovesse aderire, questi guadagni quadruplicherebbero fino a 632 miliardi di dollari, secondo le proiezioni del Peterson Institute for International Economics.
Ci sono però degli ostacoli sulla via complessiva della “multilateralizzazione” della presenza economica cinese. Una relazione del Centro di ricerca sullo sviluppo del Consiglio di Stato cinese ha rilevato questa settimana che la Cina deve continuare a modernizzare la sua economia e in particolare le sue imprese statali (SOE) per allinearsi meglio con gli standard del commercio globale. Gli osservatori si chiedono se Pechino abbia davvero la determinazione e l’intenzione di intraprendere le profonde riforme del suo settore statale così da rispettare le regole e i requisiti del CPTPP, che sarebbe il più rigoroso accordo commerciale che la Cina abbia firmato. Altre riforme imposte dal CPTPP includono appalti pubblici e arbitrato delle controversie più trasparenti, nonché condivisione transfrontaliera di dati e libero flusso di informazioni. Ci si possono aspettare alcuni rapidi progressi nella protezione della proprietà intellettuale poiché Pechino cerca di nutrire e proteggere le proprie startup e innovatori nazionali.
In tutto ciò gli USA che ruolo giocano? Nelle relazioni economiche con l’Unione Europea l’abbandono delle negoziazioni per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), entrate in una sorta di stallo verso la fine dell’amministrazione Obama per dubbi e obiezioni da entrambi i lati dell’Atlantico, hanno già evidenziato ostacoli politici rilevanti; l’atteggiamento dell’amministrazione Trump rispetto a tutte le piattaforme multilaterali che li coinvolgevano ha sicuramente avuto un ulteriore effetto negativo. Difficile però pensare che la Cina possa anche solo insinuarsi in una partnership collaudata da circa 75 anni.
Diverso è invece ciò che sta accadendo e potrebbe accadere in Asia-Pacifico. Da una parte, l’interesse espresso dalla Cina per il CPTPP non è nuovo né necessariamente guidato dagli imperativi della concorrenza geopolitica. Dall’altra, c’è comunque da considerare il ruolo americano: se Washington annunciasse prematuramente l’intenzione di rientrare nel CPTPP, ma in seguito fosse ostacolata dalle spinte interne in chiave antiglobalizzazione, potrebbe danneggiare la sua credibilità in Asia.
Una cosa è certa: l’annuncio di Xi di volere aderire al CPTPP sembra segnalare un cambiamento politico fondamentale: incoraggiata dal successo almeno iniziale della RCEP, la Cina è pronta a trarre vantaggio dalla relativa assenza degli Stati Uniti rispetto alla governance economica regionale dopo quattro anni di amministrazione Trump. Proprio a partire da quello che è ad oggi il più grande accordo regionale di libero scambio al mondo, Pechino è seriamente tentata di emarginare gli Stati Uniti dall’Asia.
Note:
[1] https://unctad.org/system/files/official-document/wir2020_en.pdf
[2] http://www.xinhuanet.com/english/2021-01/25/c_139696610.htm
[3] https://unctad.org/system/files/official-document/diaeiainf2020d5_en_0.pdf