In Egitto, dire “Mohamed Ali” è un po’ come dire: Mario Rossi. L’uomo comune. E in effetti, questo imprenditore 45enne che ha riacceso piazza Tahrir è tutto tranne che un eroe. Non chiede libertà, né democrazia. Né sharia. Nel 2011, la parola d’ordine della Primavera Araba fu: Karama. Dignità. La sua è: Money.
Il governo gli deve 220 milioni di lire egiziane. Più di 12 milioni di euro.
Fino al 2 settembre, quando da Barcellona, per ritorsione, ha iniziato a rivelare su Youtube, con dei video, la corruzione, e soprattutto, gli sprechi, del regime di al-Sisi, chiamando alla rivolta, era uno sconosciuto. Ma in realtà, Mohamed Ali non è affatto uno qualunque. E non solo perché è uno interno al sistema. Uno che fino a ieri, ha vissuto di appalti truccati. Se i suoi video hanno colpito così tanto, è anche perché le sue accuse sono accuse specifiche. Con nomi e cognomi. E senza omissioni. Cominciano dal generale Kamel al-Wazir, ministro dei Trasporti e a lungo direttore del dipartimento delle forze armate che sovraintende alle opere pubbliche: uno snodo centrale in un paese in cui l’esercito, direttamente o indirettamente, controlla i due terzi dell’economia. E, video dopo video, arrivano fino ad al-Sisi: per lui, l’impresa di Mohamed Ali ha costruito ad Alessandria una casa al mare da 250 milioni di lire. 14 milioni di euro.
Eppure – agli analisti non è sfuggito – nessuno ha poi provato a rintracciarlo in Spagna, o più facilmente, a vendicarsi sui suoi familiari al Cairo. Come sarebbe prassi del regime. Mada Masr, la sola testata indipendente rimasta, ha commentato: “Something big, something that we don’t yet fully understand, is happening”. Ma non nelle strade. “In the halls of power”.
Di certo, un anno fa Sisi ha rimosso Khaled Fawzy, il capo della General Intelligence. Pochi mesi dopo avere rimosso Mahmoud Hegazy. Il capo di stato maggiore. Segno che non si fida di chi ha intorno.
Per ora, d’altra parte, non rischia che un colpo di stato interno: l’opposizione è allo stremo. Lo stato di emergenza, che era durato per trent’anni sotto Hosni Mubarak, e la cui abolizione era stata la conquista più simbolica della rivoluzione, è di nuovo in vigore. Consente alle forze di sicurezza di detenere chiunque a tempo indefinito, per qualsiasi motivo, e quindi, anche per nessun motivo: chiudendo così gli ultimi, minimi margini di azione lasciati dalla legge sulle ONG approvata nel 2017, che obbliga ogni associazione a registrarsi, e sottoporsi alla vigilanza di funzionari dell’intelligence. Gli attivisti vengono tutti arrestati, poi rilasciati, per un po’, e poi di nuovo arrestati. Non è cambiato niente, ti dicono. Citandoti il caso più emblematico, quello di Alaa Abd el-Fattah, 38 anni: arrestato prima da Mubarak, poi dall’esercito, poi da al-Sisi. Il 27 settembre è sparito per l’ennesima volta. Ed è sparito anche l’avvocato che è andato a cercarlo.
Questa è l’unica novità. Né va meglio ai Fratelli Musulmani, fuorilegge dal 2013. Molti sono in carcere, in attesa di esecuzione. O lasciati a morire come Mohamed Morsi. Che malato di diabete, e non ha mai ricevuto insulina. Altri ancora sono in esilio. Ma la crisi è più generale, ed è uno sfaldamento totale dell’organizzazione; mentre a Istanbul è stato fondato un gruppo transnazionale che riunisce dissidenti di tutto il mondo arabo: islamisti e laici insieme – il gruppo di cui era parte Jamal Khashoggi.
Per al-Sisi, e non solo, i Fratelli Musulmani sono ancora il nemico numero uno. Il cui obiettivo è la sharia. Ma in un’intervista al Financial Times, Ibrahim Munir, che a 82 anni fa da Guida Suprema del movimento da un retrobottega di Londra in sostituzione di Mohammed Badie, all’ergastolo al Cairo, ha ammesso che l’obiettivo, al momento, è meno ambizioso: è restare vivi.
E così, l’Egitto non fa più notizia. Ai video di Mohamed Ali sono seguiti due venerdì di manifestazioni, finora, il 20 settembre e il 27 settembre: due soli venerdì, e sono già finiti in carcere oltre 3mila egiziani. Spesso, colpevoli solo di trovarsi per strada. Eppure, il sostegno internazionale ad al-Sisi è granitico. All’ultimo G7, Trump ha definito al-Sisi “il mio dittatore preferito”. E nonostante la retorica, restano saldamente al suo fianco persino i due paesi legati a Giulio Regeni: la Gran Bretagna dell’università di Cambridge, di cui era dottorando, e che è ancora il principale investitore dell’Egitto, e l’Italia, che con l’ENI è il suo principale fornitore di idrocarburi.
Con la sua strategia di rilanciare l’economia attraverso i cosiddetti megaprogetti, d’altra parte, dal raddoppio del canale di Suez alla costruzione di una nuova capitale, opere di dubbia utilità, ma sicuro profitto, e largamente finanziate da un prestito di 12 miliardi di dollari del Fondo Monetario, al-Sisi ha conquistato tutti: le imprese straniere sono tutte alla sua porta. Ha conquistato tutti, tranne gli egiziani: quando il 24 febbraio 2016, in televisione, si è detto pronto a tutto per il bene del paese, anche a vendere se stesso, è stato subito offerto in saldo su eBay.
Ma non è solo questione di affari, in realtà. Con i suoi 1200 chilometri di frontiera comune, l’Egitto è decisivo nella partita per la Libia: è la sconfinata retrovia di Haftar, e più in generale, dell’est del paese, la Cirenaica. E di chiunque, da lì, sfidi l’autorità di Tripoli. E i piani di pace dell’ONU. E non meno cruciale, naturalmente, è la sua frontiera con Israele. Che in questi mesi, è impegnato in una complessa mediazione con Hamas su Gaza. In cui al-Sisi è il suo più affidabile alleato. E in più, la Siria e l’Iraq sono ancora in guerra. Ancora in bilico. Nessuno ha voglia di tensioni anche in Egitto.
E così, mentre Twitter e Facebook bloccano periodicamente gli attivisti più noti, sulla stampa internazionale si legge che l’Egitto di al-Sisi ha l’economia più dinamica del Medio Oriente. Da quando è intervenuto il Fondo Monetario, in effetti, tre anni fa, il suo tasso di crescita ha superato il 5% l’anno. Ma è anche vero che in questi tre anni, l’inflazione ha falciato il reddito delle famiglie del 20%. Oggi un terzo degli egiziani è in povertà, e un altro 30% è a rischio povertà. Secondo i calcoli di Bloomberg, l’aumento del PIL, che tra l’altro, deriva per il 77% dal gas, dal canale di Suez, e dalle rimesse dall’estero, e cioè, non da settori capaci di generare sviluppo e occupazione, va a beneficiare solo l’1% della popolazione. Solo i Mohamed Ali. Ed è per questo che il 27 settembre, quando l’esercito presidiava ogni possibile accesso a piazza Tahrir, e si veniva fermati e arrestati a caso, la parola d’ordine era: Ogni piazza è piazza Tahrir.
Perché non importa quale sarà la scintilla, a questo punto. Per adesso, è già tutto di nuovo tranquillo: ma al-Sisi ha i giorni contati. Perché come ha detto Mohamed Ali: “Non sono uno di sinistra, non sono un islamista. Non sono un liberale. Sono solo uno come tanti. Per questo sono un problema”.