Scozia e Regno Unito: la battaglia politica dopo il referendum

“Restiamo insieme” nel Regno Unito. Il premier David Cameron ha scelto questo claim mediatico per la sua prima dichiarazione dopo il voto. Better together, avevano ripetuto i militanti del fronte del “no”, tra cui – per la prima volta, guerre mondiali a parte – si trovavano in alleanza conservatori, laburisti e liberaldemocratici.

Ma vincere non è stato facile e i segni si vedranno nei prossimi mesi: si prospetta un crescendo di concessioni a favore di Edimburgo i cui esiti politici (ed elettorali) dovranno essere verificati in seguito. Questo è il punto: se è vero – come hanno sempre sostenuto i conservatori – che la devolution of powers alimenta lo spirito nazionalistico/indipendentista, anziché sopirlo attraverso l’appeasement, quale sarà allora il risultato di una maggiore autonomia concessa alla Scozia? Si prospetta un assetto politico-costituzionale stabile, oppure comincerà un nuovo ciclo politico che renderà ancora più forti e battaglieri i nazionalisti scozzesi?

È una contraddizione intrinseca che al momento non sembra risolvibile: la pressione nazionalista chiede – e ottiene – maggiore autonomia, con un gioco al rialzo che si arresterebbe solo con il calo di consensi dello Scottish National Party (SNP), il partito indipendentista scozzese che in questo momento ha la maggioranza dei voti in Scozia, la maggioranza dei seggi al parlamento di Edimburgo e governa solitario dal 2007.

Alla fine il risultato elettorale è stato netto, più di quanto si immaginasse: 1.617.989 voti per il “sì” (45%), 2.001.926 (55%) per il “no”. Il fronte dei favorevoli, accanto allo SNP, poteva annoverare soltanto il partito dei Verdi (che alle ultime elezioni ha avuto solo il 4% dei voti).

Tra i media neppure lo Scotsman, il quotidiano scozzese più letto a Nord del Vallo di Adriano, si è schierato per il “sì”. Quest’ultimo è risultaoi maggioritario soltanto in quattro circoscrizioni elettorali, fra cui spiccano le città operarie di Glasgow e Dundee; la capitale politica, Edimburgo, è sempre stata sotto il controllo del “no”.

E ora? Chi ha vinto e chi ha perso veramente? Qualcuno dice che il risultato è dovuto alla Regina e alla Sterlina: è un modo eloquente per sottolineare i vantaggi delle continuità e della stabilità politica, in favore della quale si era schierata la City e il mondo del business. Il leader dello SNP e premier scozzese, Alex Salmond, è apparso abbacchiato nelle prime dichiarazioni dopo il voto, ma è senza dubbio uno dei vincitori della battaglia politica di più lungo termine: più che chiudersi con il voto referendario, quella battaglia si apre ora per il pagamento dei crediti politici che Londra ha aperto durante la campagna, specialmente nell’ultimissima fase.

Tutti i leader dei maggiori partiti – David Cameron, Ed Miliband e Nick Clegg – si sono profusi in impegnative dichiarazioni in favore della devolution che ora attendono di essere onorate: verificare l’attendibilità di tali promesse è già stata indicata da Salmond come la priorità dei prossimi mesi. Di conseguenza, il risultato ottenuto da Cameron è una vittoria a metà, a ben vedere: resta in sella, perché diversamente sarebbe stato impossibile rimanere a Downing Street, ma non è difficile immaginare una solida fronda interna – guidata dal sindaco di Londra Boris Johnson, che avrà gioco facile nell’incalzare il premier proprio man mano che fioccheranno le concessioni a favore di Edimburgo. Sicuro sconfitto è intanto Nick Clegg, leader liberaldemocratico e vicepremier britannico, che dopo il brillante risultato elettorale del 2010 è finito in un cono d’ombra da cui non è più uscito (il referendum è stata un’ulteriore occasione persa, per lui).

Più complesso è fare valutazioni in merito ai laburisti: come è noto, il principale partito di sinistra – fondato all’inizio del Novecento dallo scozzese Keir Hardie – registra una sostanziale tenuta elettorale in Scozia, ma subisce più di chiunque altro la forte crescita elettorale dei nazionalisti. Non si deve dimenticare infatti che la devolution è una politica lanciata da Tony Blair subito dopo la vittoria elettorale del 1997 – benché pensata dal precedente segretario John Smith – in forza della considerazione che senza i voti scozzesi i laburisti faticherebbero a vincere le elezioni britanniche, perché i conservatori hanno una maggioranza “strutturale” in Inghilterra. Ciò significa che per il Labour la secessione della Scozia avrebbe significato restare permanentemente all’opposizione: pericolo scongiurato, con il problema tuttavia dell’enorme forza elettorale dello SNP che resta tale, e che costituisce esattamente l’esito elettorale che i laburisti volevano scongiurare appunto con la devolution (una classica “eterogenesi dei fini”).

Un dato numerico è particolarmente significativo: nel 2011 lo SNP ha superato di poco i 900mila voti con un’affluenza alle urne del 50% circa; al referendum ha avuto oltre 600mila voti in più con un turnover del 84%. La dimostrazione di un’ascendente molto forte sull’opinione pubblica scozzese. Anche con questa apparente sconfitta, lo Scottish National Party è dunque il maggior beneficiario all’interno del sistema partito britannico perché si pone nelle condizioni di determinare l’agenda politica scozzese, a partire dal tema spinoso delle maggiori concessioni che dovranno essere offerte a Edimburgo. Si parla ora di Devo-more, di Devo-plus e anche di Devo-max: si tratta di espressioni che evidentemente, abbreviando la parola devolution, vi pongono comunque accanto una sillaba che sottolinea la necessità di un suo improvement.

È la vera vittoria di Salmond: aver imposto a Londra l’agenda politica dello SNP, che da sempre chiede più risorse per il governo scozzese allo scopo di rafforzare il welfare. Senza dubbio questa è una delle chiavi del suo successo: essere un partito nazionalista di orientamento progressista, pro-immigrazione e a favore di un welfare che continui a rappresentare una protezione “dalla culla alla tomba” per ogni cittadino scozzese. In breve, un partito che nello spazio politico si pone a sinistra del new-Labour, all’insegna di una maggior continuità con la storia del socialismo britannico. E nel contempo, si organizza in modo efficace, ricorrendo a risorse molto variegate: la mobilitazione dei volontari – i giovani di 16 anni che per la prima volta votavano sono stati una risorsa decisiva nel referendum, sia in campagna elettorale che alle urne – e le nuove tecnologie; la retorica carica di pathos; ma anche gli argomenti razionali e utilitaristici, come il petrolio del mare del Nord che è stato il detonatore del referendum.

In conclusione, il Regno Unito si accinge quindi ad assumere un assetto politico e istituzionale più autonomistico, destinato a modificare ancora di più i connotati originari del Westminster model. Tuttavia, per capire l’approdo definitivo di questo tragitto sarà necessario attendere almeno un paio d’anni – le prossime elezioni politiche del 2015 nel Regno Unito e quelle scozzesi dell’anno successivo.

Dovesse lo SNP ridimensionarsi, si profilerebbe uno scenario simile a quello che si è avuto negli anni Ottanta in Québec, dove la sconfitta a un referendum analogo rappresentò il capolinea politico del partito nazionalista francofono del Canada; in caso contrario, per lo SNP si potrebbe profilare l’inizio di un nuovo ciclo politico, alimentato dalle stesse dinamiche di quello attuale, ma ancora più favorevole ai nazionalisti/indipendentisti.

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