Il 9 ottobre 1935 la Società delle Nazioni – l’organizzazione internazionale con sede a Ginevra sorta nel 1919 con il Trattato di Versailles che fu una sorta di predecessore delle Nazioni Unite – approvò pesanti sanzioni economiche contro l’Italia fascista, che soltanto pochi giorni prima aveva aggredito il Regno d’Etiopia, membro della Società dal 1923 e uno dei pochi paesi del continente africano che mai erano stati colonizzati. Cinquanta paesi votarono a favore delle sanzioni, l’Italia contro, tre si astennero (Albania, Austria, Ungheria). Le sanzioni prevedevano il blocco di tutte le importazioni dall’Italia e dell’esportazione verso l’Italia di un elenco di beni necessari per la prosecuzione della guerra, ma, significativamente, queste ultime non prevedevano acciaio, carbone e petrolio, che inizialmente si riteneva di includere nella lista.
Molto in sede controfattuale si è dibattuto se l’inclusione di questi beni avesse potuto mutare – e se sì, in quale misura e fino a che punto – il corso degli eventi, fino potenzialmente a fermare l’aggressione dell’Italia e deviare il cammino dell’Italia e dell’Europa intera da una traiettoria che avrebbe condotto alla Seconda guerra mondiale. Forse. Forse la Germania nazista (che era uscita dalla Società delle Nazioni nel 1933 con un referendum tenuto in novembre che aveva raccolto il 95% di voti favorevoli) e gli Stati Uniti (che dopo aver promosso con Woodrow Wilson nel 1919 la nascita della Società non ne erano mai entrati a far parte a causa delle posizioni isolazioniste largamente presenti nel Congresso americano) avrebbero comunque continuato a rifornire l’Italia di carbone (la Germania) e di petrolio (gli Stati Uniti), anche se l’embargo li avesse inclusi.
Ma se al contrario l’embargo li avesse inclusi e gli Stati Uniti avessero aderito, allora forse l’Italia si sarebbe trovata in seria difficoltà. In ogni caso, i due paesi che dominavano la Società delle Nazioni – la Francia e il Regno Unito – furono essi stessi combattuti sulla profondità delle sanzioni, temendo di spingere l’Italia fascista nelle braccia della Germania nazista, come poi avvenne in ogni caso.
La ricaduta delle sanzioni – per come furono congegnate e per come furono attuate – fu comunque complessivamente modesta per l’economia italiana, non solo per l’assenza di Germania e Stati Uniti. Molti paesi, tra cui alcuni dell’America Latina che avevano con l’Italia particolari rapporti economici e non solo (l’Argentina su tutti), nonché altri paesi europei (tra cui la Spagna), aderirono solo formalmente, sicché le sanzioni prestarono il fianco a molti aggiramenti e falle, come del resto normalmente avviene. Fu la prima volta che la Società delle Nazioni decretarono delle sanzioni nei confronti di un paese membro. Nel 1939 l’Unione Sovietica fu invece il primo paese membro a esserne espulso per l’aggressione alla Finlandia.
Per Mussolini fu l’occasione per rafforzare il consenso interno e per indirizzare più decisamente l’economia italiana verso la strada della cosiddetta autarchia, un processo che era già in corso da qualche tempo e sulla cui opportunità si dibatteva almeno dagli anni Venti, e che comunque fu sempre e soltanto relativa.
Il 23 marzo 1936, parlando all’Assemblea Nazionale delle Corporazioni riunita in Campidoglio, Mussolini espose il suo “piano regolatore della nuova economia italiana”, con il quale si proponeva di ridisegnare, almeno formalmente, l’architettura dell’economia italiana, che in realtà in quegli anni aveva il suo centro motore nell’IRI di Alberto Beneduce, che a quel disegno rimaneva anche per cultura economica relativamente estraneo (Beneduce era contemporaneamente presidente dell’IRI e vicepresidente della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea sorta nel 1930, per sua natura aperta e internazionale).
Lo stesso Mussolini dovette essere frenato, da sé stesso o da altri, nei suoi proponimenti. Se, da una parte, come affermava in quel discorso, “l’autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica”, dall’altro riconosceva che “nessuna nazione al mondo può realizzare sul proprio territorio l’ideale della autonomia economica, in senso assoluto, cioè al cento per cento; e, se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi nella misura più larga possibile delle servitù straniere”. Proseguiva poi concentrandosi sull’autarchia nel campo della difesa e soprattutto in quello delle materie prime.
L’autarchia italiana, che fu un tentativo complessivamente fallimentare, ebbe molte facce: autarchia bellica; autarchia del lavoro e del prodotto italiano; autarchia dell’industria e delle materie prime; autarchia valutaria. Alcune di queste autarchie plurali erano perfino in contrasto fra di loro: l’autarchia valutaria, per esempio, aveva bisogno per procurarsi valuta pregiata dell’export anche di quel materiale bellico che l’autarchia bellica voleva tenere stretto. Fu anche uno scontro tra fazioni e personalità dentro il fascismo. Ne sorsero contraddizioni insanabili circa la tempistica (breve periodo-lungo periodo) e dunque su quale ambiente fosse più propizio (la guerra o la pace?). Pesarono infine, oltre a mille inefficienze, la dimensione e la struttura dell’economia italiana. Il rafforzamento dell’IRI, dove giganteggiavano figure di altissimo profilo come Donato Menichella, gettò le basi per il ruolo che ebbe nel secondo dopoguerra.
Erano anni contraddittori e complicati, in cui la cooperazione internazionale faticava a trovare vie praticabili (si veda il fallimento della Conferenza economica di Londra, nel 1933) e in cui le economie si ripiegavano fatalmente su se stesse e si formavano aree valutarie di tipo “imperiale” (l’area del dollaro, l’area del franco, l’area della sterlina), consolidando una ritirata dalla precedente era di globalizzazione, che prima della Grande guerra aveva cambiato il volto del mondo.
Lo stesso John Maynard Keynes, che protezionista per formazione e per vocazione non era – ma che pure aveva su questo punto avuto una serie di contingenti ma sempre motivate oscillazioni – aveva nel 1933 tenuto un discorso a Dublino poi pubblicato con il titolo di “National Self-Sufficiency” (L’autosufficienza nazionale), pieno di dubbi e di postille sul libero scambio in tutto e per tutto, e in cui aveva affermato anche di essere “più d’accordo con quelli che vorrebbero ridurre l’intreccio economico tra le nazioni che con quelli che lo estenderebbero. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente è possibile, e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale”. Aveva però poi con somma cautela aggiunto che “nello stesso tempo, però, chi cerca di liberare un paese dai suoi intrecci internazionali dovrebbe procedere adagio e con cautela. Non è questione di strappare le radici – chiosava con una di quelle immagini di cui era condita la sua scrittura – ma di abituare lentamente una pianta a crescere in una direzione differente”.
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I fascisti italiani naturalmente non persero tempo e utilizzarono questo discorso – in origine ampio e articolato, scritto in ogni caso dall’uomo che più di ogni altro avrebbe poi contributo, con la conferenza di Bretton Woods del 1944, all’assetto della cooperazione economica internazionale del secondo dopoguerra – per i loro fini, traducendolo a spron battuto, pubblicandolo con il titolo assai fuorviante di “Autarchia economica”, ed espungendolo di un passo severo sulla Germania nazista. Del resto, Keynes, il cui giudizio politico era durissimo sui regimi autoritari, aveva prestato in qualche modo il fianco a quest’uso, dicendo peraltro che “Mussolini stava forse per mettere il dente del giudizio” nella conduzione dell’economia.
Se guardiamo a questi eventi alla luce di ciò che ci circonda oggi possiamo trarne, forse, quale lume e non qualche lezione. Con la Storia si ragiona e non si predica, né tantomeno si predice il futuro. Intanto, le sanzioni sono efficaci alla luce di chi vi partecipa (l’ampiezza dell’alleanza), ma anche, per converso, di chi non vi partecipa (Cina e più ampiamente BRICS, anche se la Banca dei BRICS ha sospeso nuovi finanziamenti alla Russia etc.).
Allo stesso modo, sono più o meno efficaci a seconda che si includano o escludano alcune materie prime (vedi oggi gas e soprattutto petrolio). Possono prestare il fianco a una propaganda interna che nel breve termine può rafforzare un regime, ma nel medio termine lo indeboliscono decisamente (il crollo dell’economia russa per quest’anno è stimato nell’ordine di oltre il dieci per cento del PIL). Possono condurre a pericolose alleanze militari simili ad abbracci fatali (Putin sta tentando forse di abbracciare il leader cinese Xi Jinping), sempre che l’altro lo consenta (Xi si lascerà abbracciare?). Corrispondono, per chi le attua, a una “guerra economica” in un ambiente aperto e liquido, ma costringono chi le subisce a entrare in una “economia di guerra”, con controlli (anzitutto valutari), regolamenti e tetti in un ambiente relativamente chiuso (dipende dalle contro-alleanze). Possono, e sono, normalmente aggirate a volte da chi le attua ma soprattutto da chi le subisce. Se inefficaci, possono indebolire il fronte che le ha proposte, fino a essere sollevate anzitempo, come avvenne nel caso dell’Italia (nell’estate del 1936, dopo la proclamazione dell’Impero fascista).
Ma non esistono mai facili comparazioni e ogni storia è inevitabilmente “storia a sé stante”. Il mondo di oggi è molto distante da quello di ieri, soprattutto per l’accresciuta interdipendenza e per la moltiplicazione dei centri di decisione autonoma (statali e non); le parti coinvolte sono molto diverse.
Le sanzioni contro Putin e contro il suo regime – che per ampiezza, profondità e rapidità di esecuzione non hanno precedenti – sono fondamentali per riequilibrare i pesi in campo. Ma sono sufficienti, così come sono ora, a fermare Putin? O occorrerà andare più a fondo? La BCE, per esempio, stima che una sospensione dell’import di energia dalla Russia possa ridurre la crescita nell’area euro, quindi mediamente, dell’1.4% (dal 3.7% a 2.3%) con valori più alti (Germania, Italia) a seconda dei paesi. Certo, sarebbe un costo economicamente significativo, soprattutto se alla prova dei fatti dovesse rivelarsi molto più alto, ma il costo andrebbe commisurato alle possibili ricadute dal punto di vista politico-strategico. Oppure ancora si può pensare a misure più mirate, capaci di intaccare la macchina produttiva russa, ma non quella europea. In tutti i casi un aggiustamento o approfondimento delle sanzioni esporrebbe ancora di più Pechino, che si troverebbe ad essere, volontariamente o involontariamente, l’unica sponda di Putin. E per quanto? La Cina ha bisogno dell’infrastruttura della globalizzazione, in cui è immersa, che largamente poggia sul dollaro.
Pare che alla vigilia della dichiarazione di guerra dell’Italia agli Stati Uniti (dicembre 1941), in un colloquio con Mussolini, l’ex direttore del Corriere della Sera estromesso dal fascismo, Luigi Albertini, chiedesse al dittatore se avesse contezza delle dimensioni dell’elenco telefonico del paese al quale stava per dichiarare guerra. Non era solo un’allusione alla numerosità della popolazione americana quanto all’entità del processo di infrastrutturazione avvenuto in quel paese, alla sua organizzazione e tecnologia, e dunque allo squilibrio di fondo delle forze in campo.
C’è, a proposito di squilibri, una strana “regola del 10” nell’aggressione della Russia all’Ucraina e in ciò che ne fa da sfondo. La proporzione del personale militare dell’Ucraina e della Russia è 1 a 10. Ma la proporzione dell’interscambio commerciale della Cina e della Russia da una parte e quello della Cina e dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dall’altra (la più parte di ciò che chiamiamo Occidente) è 1 a 10. La proporzione della popolazione russa e di quella cinese è 1 a 10. Forse Putin si è infilato in un vicolo cieco e la Russia finirà per diventare uno stato “vassallo” della Cina.
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Sono in ogni caso le due ultime proporzioni quelle che conteranno per il futuro di questa guerra e del mondo, e dunque quelle che, a Mosca, qualcuno dovrebbe ricordare a Putin – anche se la vicenda di Albertini ci ricorda che nulla può fermare chi non vuole ascoltare, specie se si tratta di un dittatore.