Riyad e il Golfo nel disordine regionale

Forse, tre anni dopo le rivolte arabe, l’Arabia Saudita è arrivata perfino a rimpiangere la stabilità del temuto arco sciita, disegnato dai governi di Iran, Iraq, Siria e Libano. La diversità confessionale dava infatti un volto riconoscibile al rivale-nemico e permetteva di celare – sotto un’efficace maschera retorica – la competizione geopolitica fra Riyad e Teheran nella regione mediorientale. Nello scenario attuale, gli Al-Saud sono invece costretti a muoversi fra l’arco sciita – che comunque persiste – e una sorta di “imbuto sunnita” che, in parte, hanno attivamente contribuito ad alimentare: si tratta di una vasta area d’instabilità che dalla regione occidentale di Al-Anbar in Iraq si estende fino al Libano settentrionale (dove sciiti e sunniti condividono il medesimo territorio), passando per la Siria nordorientale, che ne è l’epicentro. In questo metaforico imbuto, il jihadismo – spesso di matrice qaedista – vive una nuova, preoccupante fiammata, amplificato dai legami clanico-tribali preesistenti (Siria e Iraq) e dai riflessi del conflitto per Damasco (Siria e Libano).

Nella fase iniziale delle sollevazioni del 2010-11, Riyad era contemporaneamente riuscita a estendere il proprio soft power nell’Africa mediterranea (tramite generosi finanziamenti ai partiti salafiti in Tunisia e in Egitto) e a condurre una tempestiva politica di contro-rivoluzione nella Penisola arabica (Bahrein, Yemen, Oman). La gestione degli equilibri interni post-rivolte si sta però rivelando complicatissima: i fallimenti governativi, lo stallo istituzionale e la violenza politica stanno compromettendo le transizioni arabe nonché danneggiando il vantaggio strategico che i sauditi avevano accumulato nello scacchiere. L’evoluzione del conflitto siriano – divenuto terreno di scontro fra diverse milizie jihadiste – e il riavvicinamento diplomatico fra l’Iran e gli Stati Uniti sono i due fattori che hanno rimescolato le carte.. Le aperture internazionali del presidente iraniano Hassan Rohani sono infatti coincise con l’accordo sullo smantellamento dell’arsenale chimico del regime degli Assad e la conseguente retromarcia di Washington circa l’attacco militare contro Damasco: è da quel momento che il vento, per Riyad e i vicini arabici, è iniziato a cambiare, imponendo ai sauditi di confrontarsi con almeno tre sfide nuove.

La prima sfida riguarda la compattezza politica del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Il disgelo in corso fra l’Iran e la comunità internazionale sta esacerbando i distinguo fra le monarchie del Golfo, che danno l’impressione di voler anteporre, ora più che mai, i propri obiettivi nazionali a quelli dell’organizzazione. Il loro obiettivo sembra proprio quello di contenere la stretta egemonica dei sauditi. Di fronte all’affievolimento della “minaccia Iran”, i paesi del CCG si muovono così in ordine sparso. L’Oman ha rifiutato la proposta saudita di trasformare il Consiglio in un’unione politica, spinto sia dal desiderio di preservare la tradizionale autonomia in politica estera, che dalla volontà di conservare la pacifica convivenza interna fra confessioni diverse dell’Islam: sono infatti i buoni rapporti con l’Iran e con lo sciismo a contraddistinguere Muscat dalle altre monarchie dell’area. Gli Emirati Arabi Uniti (EAU), per voce dell’emiro di Dubai Mohammad bin Rashid al-Maktoum, si sono mostrati tiepidi verso la candidatura del feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi alla presidenza dell’Egitto, finora sostenuto da Riyad (ma anche la stampa saudita inizia a interrogarsi sull’opportunità della sua elezione); gli Emirati hanno poi richiamato l’ambasciatore del Qatar dopo un sermone del noto predicatore Youssef al-Qaradawi trasmesso da Al-Jazeera, in cui si criticava la politica emiratina verso Il Cairo – un episodio ora risolto, ma che evidenzia il clima teso nella Penisola. La sensazione è che il mutato quadro regionale moltiplichi gli spazi di competizione economica e politica intra-sunnita; tali dualismi sono meno vistosi di quelli intercorsi fra Arabia Saudita e Qatar in Siria e in Egitto, ma potrebbero ostacolare il consolidamento di un’identità solidale del Golfo, plasmata dalle monarchie grazie all’esperimento multilaterale seguito allo shock della rivoluzione islamica del 1979 a Teheran.

La seconda sfida incrocia la questione jihadista. La corsa scomposta fra sauditi e qatarini a finanziare e armare le opposizioni al regime di Bashar al-Assad ha contribuito ad attrarre il fronte del jihad in Siria, dove le brigate Jabhat al-Nusra e Stato islamico nell’Iraq e nel Levante hanno ormai ingaggiato una guerra parallela contro l’Esercito Libero Siriano. Il rischio è che, come già accaduto in Afghanistan negli anni ottanta, i mujaheddin attivi in Siria divengano pericolosi per gli stessi paesi che li hanno fomentati. A riguardo, il re saudita Abdullah ha appena emanato un decreto reale che intende scoraggiare il fenomeno del “jihadismo di ritorno”: i cittadini appartenenti a gruppi terroristici e recatisi all’estero per combattere saranno puniti con una pena massima di vent’anni di reclusione (un analogo progetto di legge è stato appena depositato all’Assemblea nazionale del Kuwait). Nel frattempo, l’emiro di Dubai Al-Maktoum ha dichiarato alla BBC che le monarchie del Golfo “dovrebbero aiutare i siriani, ma non interferire”; gli emiratini (la cui fornitura di armi ai ribelli non è provata), stanno cercando di darsi un profilo riconoscibile di politica estera, smarcandosi da Riyad e Doha e puntando sugli aiuti umanitari ai profughi giunti in Giordania e Libano, come recentemente sottolineato anche dall’alto commissario dell’ONU per i rifugiati Antonio Guterres.

La terza sfida, infine, consiste nell’arginare la frattura fra sciiti e sunniti dentro la Penisola arabica. Il Bahrein è ancora lontano dalla pacificazione e la questione degli sciiti della regione orientale saudita rimane irrisolta; nello Yemen, si è riaccesa la guerriglia fra i dissidenti sciiti zaiditi del nord (gli huthi) e i salafiti, appoggiati da Riyad, che teme lo sconfinamento delle ostilità nel proprio territorio. Nel piccolo Kuwait, i toni del dibattito politico tra la maggioranza sunnita e la consistente minoranza sciita (30%) stanno assumendo una crescente connotazione settaria, direttamente collegabile alla crisi siriana; grazie a una legislazione favorevole, Kuwait City è infatti divenuta il centro di raccordo e di distribuzione delle donazioni private provenienti dai paesi della Penisola, dirette non solo alle milizie sunnite (come fa l’associazione politica salafita Al-Asalah del Bahrein), ma anche alla controparte di regime. Preoccupato dalle ricadute interne di questo fenomeno, l’Emiro del Kuwait ha costituito un’unità di investigazione finanziaria (non ancora operativa), mentre il finanziamento di gruppi terroristici è diventato reato.

Guardando al panorama regionale, non è allora difficile comprendere perché l’Arabia Saudita stia ora riversando i suoi sforzi diplomatico-finanziari verso il Libano, dove gli Al-Saud dispongono di una collaudata rete di alleanze con molti zuama, ovvero i capi delle famiglie politiche locali. Agli occhi dei sauditi, le ultime speranze di ridisegnare un equilibrio di potere meno sfavorevole passano per la tenuta politico-sociale di Beirut. Riyad sta consegnando alle forze armate libanesi armi ed equipaggiamenti (di produzione francese) per tre miliardi di dollari; durante una visita in Arabia Saudita, il generale Jean Kahwagi ha sottolineato che la donazione militare, “senza condizioni”, è finalizzata al contrasto degli attentati terroristici moltiplicatisi dalla scorsa estate, quando Hezbollah intervenne ufficialmente in Siria per aiutare il regime nella presa di Qusayr. Proprio le forze armate libanesi – che stanno lentamente guadagnando legittimità nazionale – sono ora il bersaglio delle formazioni jihadiste, anche di emanazione siriana e irachena, che stanno proliferando nel paese, specie nelle città di Tripoli (al nord) e Sidone (al sud). Tuttavia, la politica saudita in Libano continua a muoversi lungo un doppio, scivoloso binario. Infatti, accanto al consolidamento delle forze armate, Riyad fornirebbe denaro e armi ad alcune milizie sunnite, come nel caso di Ahrar Tripoli, costituita nella città costiera settentrionale dall’ex capo della polizia Ashraf Rifi. . Mentre i sauditi mostrano dunque un rinnovato interesse per il Libano, Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah, ha maliziosamente confermato di aver incontrato, a dicembre, un emissario del governo del Qatar; i contatti fra le parti non sono inediti, dato che Doha finanziò progetti di ricostruzione nel Libano meridionale, dopo il conflitto del 2006 fra Hezbollah e l’esercito israeliano. Ancora una volta, la consapevolezza di essere succubi delle lotte di potere regionali fa crescere il senso di frustrazione tra i libanesi. Un editoriale pubblicato recentemente dal quotidiano L’Orient le Jour ipotizzava addirittura la possibilità di un new deal fra Arabia Saudita e Iran, con l’obiettivo di stabilizzare i troppi archi di crisi aperti in Medio Oriente; il primo segnale di questo nuovo corso sarebbe l’incontro riservato, avvenuto a Roma in gennaio, fra Michel Aoun, il generale cristiano alleato di Hezbollah e il sunnita Saad Hariri, a capo dell’élite familiare da sempre sostenuta dagli Al-Saud.

Barack Obama si recherà da re Abdullah a marzo; una visita delicata, poiché la relazione speciale (e inevitabile) fra sauditi e statunitensi sta sperimentando mesi di tensione e freddezza. Oltre alla sicurezza del Golfo, Riyad, Washington (e Israele) condividono, però, almeno due obiettivi fondamentali, funzionali al rilancio della storica alleanza: stabilizzare l’Egitto ed evitare che il Libano riviva l’incubo della guerra civile.

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