Riparare le brecce della diseguaglianza: una sfida nel post-Covid

Come ogni emergenza, anche il Covid ha accelerato processi. Ha accelerato, ad esempio, le transizioni tecnologiche. In Italia, lo smart working è impennato da una platea di circa 600mila persona ad una di circa 8 milioni mentre, nel mondo, l’e-commerce, con Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, ha toccato il picco dell’1,3% delle esportazioni globali. Ha accelerato la tendenza di alcuni Paesi ai regionalismi, o meglio alla “slowbalization”, in conseguenza della chiusura dei confini. Le esportazioni globali sono crollate del 20% con, di fatto, una marginalizzazione della Cina.

Ma la pandemia ha “accelerato” anche processi molto cattivi, come quelli che generano diseguaglianze. E così, in Italia, durante il lockdown, i lavoratori “essenziali” sono stati quelli più esposti al rischio di contagio e con meno diritti. Tra questi, i rider del delivery, che hanno garantito la consegna dei beni di primo consumo, e più in generale i lavoratori della gig economy nel settore dei servizi.

I falsi “co.co.co” e le false “partite Iva”, lavoratori dipendenti mascherati da autonomi, non hanno avuto accesso alla cassa integrazione ma soltanto a magri indennizzi. I lavoratori in nero, come quelli del turismo, soprattutto meridionale, sono rimasti privi non solo della possibilità di lavorare ma in alcuni casi, come per gli immigrati irregolari, anche di sussidi sociali. Le lavoratrici madri hanno fatto passi indietro sul terreno del “work-life balance” per la necessità di prendersi cura a tempo pieno dei figli e delle persone non autosufficienti e, per questo, perduto capacità produttiva. Emblematico il caso dell’Inghilterra dove, secondo l’Economist del 6 giugno 2020, hanno abbandonato il lavoro il 15% in più di queste lavoratrici.

 

Da qui, secondo la Banca d’Italia, un aumento dell’indice delle diseguaglianze, il cosiddetto “coefficiente di Gini”, da 0,35 a 0,37 nel primo trimestre del 2020 per l’Italia.

Se è vero questo, è vero allora che contrastare queste evoluzioni è una priorità. Lo ha ricordato durante il recente meeting di Rimini anche Mario Draghi, secondo cui privare i giovani del loro futuro è essa stessa una forma di diseguaglianza.

Dobbiamo chiederci secondo quali traiettorie va fatta questa operazione, e a chi spetta perseguirla.

Gli interventi devono essere mirati. Ulteriori interventi massivi rischiano di aggravare il contesto. E’ accaduto alla ripetuta attuazione di politiche “keynesiane” che, negli anni ’70, generarono stagflazione, con alti tassi di inflazione ed alta disoccupazione. Motivo della svolta degli Stati verso le politiche di Milton Friedman nel decennio successivo: abbattimento delle deficienze strutturali, un più basso costo del denaro, protagonismo delle banche centrali.

E cosi, per i gig workers è ora di creare di diritti basilari comuni, a partire da quelli alla salute e alla sicurezza sul lavoro ma anche ad una retribuzione equa. Da anni, la Chiesa si pone l’obiettivo del lavoro dignitoso mentre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha promosso un programma di “decent work”. Su questa traiettoria, è strategica una cabina di regia europea come abbiamo sostenuto nell’ultimo volume a cura di padre Francesco Occhetta: “Le politiche del Popolo. Volti, competenze e metodo” (Edizioni San Paolo).

Creare questi diritti significa anche creare maggiore occupazione nel Paese e gettare le basi per la riduzione del cuneo fiscale: più lavori consentono allo Stato di tassare meno ciascuno di essi e di mantenere intatta la cassaforte per il pagamento delle pensioni.

Uno statuto di diritti basilari comuni è in grado, inoltre, di contrastare la diseguaglianza figlia del precariato delle false “partite Iva” e dei falsi “co.co.co.” perché interrompe il nesso di dipendenza esclusivo, di eredità fordista, tra garanzie e lavoro subordinato.

Ed ancora, ridurre il cuneo fiscale vale ad erodere le sacche di lavoro nero, tra cui quello degli immigrati, perché sulla testa di chi lo regolarizza non si abbatte una perfetta tempesta fiscale e contributiva.

Infine, se il lavoro entra prepotentemente in casa, le situazioni di bisogno delle lavoratrici madri devono trovare risposta in nuovi programmi di welfare. Offrire servizi di assistenza per figli e persone disabili anche attraverso la costruzione di centri idonei nei quartieri, promuovere un’architettura delle abitazioni in grado di conciliare le esigenze dei tempi di vita e lavoro, ma anche servizi accessori come lavanderie, ristoranti e servizi per il tempo libero al fine di garantire il diritto alla disconnessione, sono solo alcuni esempi.

A chi spetta disegnare e realizzare questo insieme di interventi? Nemmeno questa domanda è banale anche se può sembrarlo.

Infatti, nei mesi della pandemia, il Governo ha assunto un ruolo di inedita centralità, nel segno di uno stato di emergenza che ha rischiato di lambire i confini di quello di eccezione (teorizzato da Giorgio Agamben e ricordato nel suo libro più recente). Rischiato, in altre parole, di assestare un colpo all’equilibrio tra i poteri del nostro ordinamento, alle dinamiche del confronto tra parti sociali, e alle conseguenti logiche di redistribuzione della ricchezza, ma anche al libero mercato quando è stata assecondata l’ipotesi della “mano visibile” dello Stato in alcune imprese, con rigurgiti del conflitto tra statalismo e collettivismo. E dunque di aprire una pericolosa breccia.

Ed allora, la risposta è nel rinnovato protagonismo del Parlamento e dei corpi intermedi secondo il gioco di presi e contrappesi disegnato dalla Costituzione.

Una fase delicata, come quella imminente, richiede percorsi di legge incisivi, e quindi coraggiosi, ma meditati. La sede parlamentare garantisce il confronto tra i rappresentanti eletti dei cittadini mentre i corpi intermedi, compresi i sindacati, sono i portatori delle prioritarie istanze delle società civile e del mondo del lavoro, che abitano dal profondo.

Per questa fase, in altre parole, sono incapaci di cogliere nel segno strumenti tipicamente emergenziali, come i decreti legge o, a maggior ragione, la decretazione della Presidenza del Consiglio, in voga negli ultimi mesi.

Il parallelismo storico con l’antesignano dello Statuto dei diritti basilari comuni, lo Statuto dei lavoratori, una legge (n. 300 del 1970) che ha resistito per cinquant’anni alle intemperie della storia, rivela ad esempio che la relativa gestazione è stata figlia di un serio confronto tra forze politiche, sindacati e società civile. Prima un’idea del sindacalista Di Vittorio del 1952 al congresso dei chimici di Napoli, poi: i convegni pubblici come quello della Società Umanitaria del 1955, l’impegno dei governi Moro del 1963 e del 1964, i primi disegni di leggi del Pci e del Psiup del 1967,  il progetto del governo Rumor del 1968 e, infine, l’azione decisiva dei ministri del lavoro Brodolini e Donat-Cattin.

Erano sicuramente tempi diversi, e più lente le dinamiche, ma i percorsi di (ri)costruzione restano, ancora oggi, altrettanto impegnativi.

In definitiva, per la lotta alle diseguaglianze “accelerate” dal Covid, non può farsi a meno di un “wathever it takes”. Certamente, c’è bisogno di una visione illuminata, che sia sintesi di sensibilità diverse: quella dei “riparatori di brecce” nella tradizione del profeta Isaia, ripresa da Alcide De Gasperi. E’ proprio così che lo ha ricordato la allora Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, in occasione dell’anniversario della sua morte.

 

 

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