Ragionare con ordine sul disordine

 Il recente libro di Mattia Ferraresi “Il secolo greve – Alle origini del nuovo disordine mondiale”* va alla ricerca delle radici di una crisi in atto: quella dell’ordine di matrice americana e occidentale. E rintraccia le origini del problema nelle debolezze intrinseche del liberalismo, come sistema politico ma anche filosofico.

Un problema di fondo è anzitutto definire cosa si intenda per “ordine” internazionale – e dunque il suo opposto o la sua assenza, il “disordine”. Purtroppo non esiste una definizione precisa e condivisa, e certamente non esiste per i contemporanei nel valutare gli assetti globali in cui sono immersi nella propria vita quotidiana. Questi assetti appaiono sempre confusi, instabili, perfino imperscrutabili; è soltanto a posteriori che una certa forma di ordine emerge, o meglio viene imposta a una fase storica ormai conclusa o comunque nella sua fase matura. La sequenza storica di “ordini internazionali” è allora soprattutto una chiave interpretativa che richiede di separare il segnale dal rumore, lo schema ricorrente dagli eventi occasionali.

Il mondo nel 1930

In tale prospettiva, per chi si trova a ridosso degli eventi è naturale la tendenza a dare per scontati i fattori di continuità più familiari (finendo per non notarli neppure) e concentrare l’attenzione sui fattori di cambiamento (almeno quelli più evidenti), perdendo di vista altre linee di sviluppo sottostanti (perché magari di tipo “carsico”).

Così, quando è crollata l’Unione Sovietica e si è dissolta la guerra fredda, quasi tutti gli osservatori hanno focalizzato l’attenzione sul “momento unipolare” americano: un fatto relativamente nuovo, ma solo come lineare evoluzione di quella che era già una “superpotenza”. Hanno lasciato però in disparte la crescita di un attore enorme come la Cina, che all’inizio degli anni ’90 era ancora un dato non macroscopico, ma sarebbe, diventato di lì a poco esponenziale e di rottura, mentre cercavano quasi disperatamente un “nuovo nemico” da contrapporre agli USA. Il fatto è che il “momento unipolare” non era una vera novità ma piuttosto una logica eredità del tracollo sovietico e della strapotenza militare americana rispetto a chiunque altro. Era invece la crescita cinese a trasformare il quadro internazionale in modo profondo, senza però porre una sfida frontale. Intanto, rischi e minacce al sistema a guida occidentale non venivano tanto da avversari classici di peso comparabile agli Stati Uniti, quanto semmai dall’emergere di dinamiche “reticolari”: sotto, dentro e attraverso i confini degli Stati “sovrani” e delle alleanze tradizionali.

Grazie al beneficio della retrospettiva, possiamo oggi dire con un certo grado di fiducia che gli anni ’90 e i primi anni 2000 sono stati, al livello della politica e dell’economia mondiale, relativamente stabili al livello della maggiori potenze – pur in presenza di alcuni gravi fattori di instabilità ai livelli inferiori delle “medie” e “piccole” potenze, al livello di vari attori non statuali, come anche su questioni transnazionali. In altre parole, gli elementi di disordine globale si sono inseriti in un quadro in cui le maggiori potenze (pensiamo al G20, e non soltanto alla coppia USA-Cina) condividono e accettano un insieme di modalità di comportamento e di gestione: in particolare, convergono su una sorta di infrastruttura capitalistica (interpretata e forzata in modi diversi ma pur sempre condivisa), e una grande cautela nell’uso della forza militare nei rapporti reciproci (il che non ne impedisce affatto l’impiego nei rapporti con attori minori).

Seguendo la traccia del ragionamento di Ferraresi nel suo libro, la “storia intellettuale” dell’ordine globale ha visto, attorno alle cesura del 1989-90, due famosi tentativi di dare senso agli eventi, che possono ancora servirci da bussola: quello di Francis Fukuyama e quello di Samuel Huntington. Entrambi hanno colto aspetti decisivi dei mutamenti in corso, ma vanno emendati o precisati in misura importante.

Fukuyama aveva visto correttamente una sorta di “fine della storia”, ma ha avuto ragione soprattutto in termini economici: invece della fine del mondo “non liberale”, è arrivata la fine del mondo “non capitalista”. Ciò che accade attorno ai primi anni ’90 è una straordinaria convergenza verso un complessivo modello economico, che come detto viene interpretato in modi assai diversi e spesso illiberali, ma pur sempre capitalista: una transizione epocale soprattutto in virtù delle dimensioni della Cina, che di fatto trascina con sé anche quasi tutto l’ex “terzo mondo” – rimasto ormai senza realistiche alternative per essere finanziato e integrato.

L’ingresso della macro-area cinese nell’arena di competizione/interdipendenza globale causa la creazione di una gigantesca “classe media” di consumatori, oltre che produttori e poi innovatori, innalzando le aspettative (e che il tenore di vita) di centinaia di milioni di individui. Ciò produce effetti duraturi e sistemici sull’economia mondiale, in particolare sotto forma di agguerrita concorrenza tra “nuova” forza-lavoro nei paesi emergenti e “vecchia” forza-lavoro nei paesi più avanzati. Quest’ultimo aspetto fa sì che, proprio mentre si riducono le diseguaglianze in molti paesi emergenti, aumenti invece in molti paesi “benestanti” il senso di “privazione relativa”, perché le aspettative di una crescita sostenuta e permanente vengono deluse.

Passando a Huntington, anche qui abbiamo una visione del disordine globale che coglie un punto fondamentale ma ne travisa altri: non stiamo assistendo a un conflitto sistemico tra poche grandi “civiltà” inconciliabili, ma piuttosto tra molte piccole identità “tribali”. La tribalizzazione della politica e della società è andata di pari passo con la globalizzazione, erodendo la coesione interna di molti “stati-nazione” – figli a loro volta di un’invenzione europea moderna adottata quasi ovunque nel mondo. Le identità culturali sono sì essenziali per capire il disordine globale; ma non nelle modalità macroscopiche delineate da Huntington, bensì in forma “micro”, in Catalogna o in Scozia, e con assai maggiore brutalità in Siria o in Libia, in Myanmar o in Nigeria.

Veniamo ora al cuore filosofico e intellettuale della tesi di Ferraresi, cioè il liberalismo in quanto sistema organizzativo e di valori. Come spiega lucidamente il libro, l’attuale debolezza del liberalismo è una crisi da aspettative eccessive e deluse. Stanno a confermarlo le tante pulsioni “populiste” che spesso rasentano una specie di nichilismo anti-meritocratico. E’ utile però guardare a un aspetto più specifico del liberalismo nell’attuazione pratica, per capire meglio il suo momento di crisi: il rapporto con la modernità. Il liberalismo, soprattutto nella sua incarnazione americana, è legato indissolubilmente all’idea di progresso come fenomeno tecnico: progresso della scienza e (anche al di fuori delle “hard sciences”, cioè nelle cosiddette scienze sociali) delle conoscenze applicate. I successi materiali delle società occidentali ne sono una prova tangibile.

Il liberalismo rischia, per sua stessa natura, una deriva verso il relativismo etico e delle opinioni – che, a sua volta, può svuotare totalmente valori e istituzioni democratiche, in particolare in un contesto di globalizzazione rapida come quella degli ultimi decenni. E’ qui che si deve allora ricordare come un grande argine al relativismo sia stato posto proprio dalla fiducia nella scienza, e per estensione nel progresso anche sociale che può derivarne. Scienza e tecnologia sono infatti sia una garanzia di miglioramento delle condizioni medie di vita, sia un fattore comune che travalica le diversità culturali e storiche. Le grandi scoperte scientifiche e le grandi realizzazioni tecnologiche fanno apparire le dispute politiche ben più piccole e forse insignificanti. Sono un vero patrimonio dell’umanità, tanto quanto i diritti umani e personali che il liberalismo pone al centro della convivenza civica.

Tendiamo spesso a sottovalutare quanto la modernità – di cui il liberalismo è parente stretto – sia legata a questa visione del mondo, in cui ogni generazione può realisticamente presumere che la successiva godrà di migliori strumenti tecnologici. Se questa stretta relazione si spezza, allora senza dubbio il liberalismo entra in crisi, perché si interrompe il ciclo virtuoso delle aspettative crescenti, cioè della fiducia nel futuro.

Probabilmente proprio la natura pervasiva delle tecnologie più recenti ha contribuito a questa frattura – speriamo temporanea: si è dimenticato che il progresso tecnologico è solo uno degli ingredienti della qualità della vita. Nel frattempo, agli occhi dei consumatori/elettori/cittadini non è più chiaro che le continue migliorie dei gadget digitali sono fondate appunto sul metodo scientifico, e quando si usa uno smartphone questo legame non è in effetti così evidente.

Fatto ancora più grave, si è diffusa una grande confusione sul rapporto tra scienza e dubbio: lo scienziato ha sempre dei dubbi e le sue teorie sono sempre temporanee – anche se, rispetto alle “opinioni” di un profano, quello del fisico teorico è un mondo super-deterministico. Si è travisata la logica della scienza di base, che vive appunto di dubbio e di domande, non di certezze permanenti e di risposte definitive, perfino quando raggiunge un’altissima capacità esplicativa e predittiva. Al tempo stesso, non tutto è una questione di opinioni o di preferenze personali, perché alcuni dati sono confermati dall’esperienza e altri no, o quantomeno non altrettanto e non ancora.

In questo clima “post-moderno”, si è dato anche per scontato che la tecnologia sia una soluzione a qualsiasi problema socio-economico – mentre le soluzioni tecniche richiedono comunque un quadro politico-amministrativo, e ancor prima intellettuale. In sostanza, l’abitudine a consumare con grande rapidità e quasi voracità ogni sorta di prodotti tecnologici e soprattutto digitali ha per ora ridotto, invece di aumentare, le capacità collettive di applicare il metodo scientifico e addirittura la logica più elementare.

Nulla di tutto ciò è irreversibile, ma si deve fare una buona diagnosi per poter fare una buona prognosi. E concentrarsi sulle fake news o sul “volto oscuro” del web è davvero solo un primo passo, piccolo e superficiale; non è certo sufficiente ad affrontare la sfida complessa della nostra “post-modernità”, che riguarda anzitutto la cultura.

In estrema sintesi, proprio come nello studio di Mattia Ferraresi, dobbiamo abituarci a ragionare con ordine anche sul disordine. Dall’analisi della politica internazionale fino ai problemi interni del liberalismo, per arrivare al nostro rapporto con scienza e tecnologia, il mondo è complesso ma non è del tutto fuori controllo. In ogni caso, il panico e l’irrazionalità non aiuteranno certo a capirne i problemi, e tantomeno ad affrontarli. 

 


* Marsilio Editori, 2017

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