L’unilaterale annessione da parte delle autorità israeliane di una porzione della Cisgiordania violerebbe un principio cardine del diritto internazionale: pochi principi giuridici sono infatti più consolidati e condivisi a livello internazionale del divieto di acquisizione di un territorio mediante la forza. Ciononostante l’annuncio (13 agosto) della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) premia esplicitamente le autorità israeliane per la promessa di “congelare” un atto a cui si oppongono tutte le organizzazioni internazionali e la quasi totalità degli stati membri delle Nazioni Unite. Rappresenta in questo senso un pericoloso precedente, sia a livello regionale che internazionale.
Ciò appare ancora più evidente se si considera che il territorio occupato palestinese rappresenta la sola area del mondo in cui milioni di individui vivono da oltre 50 anni privi sia di un loro stato che di una cittadinanza di un qualsivoglia Paese. Le “potenze occupanti” presenti nelle aree ad esempio abitate da curdi, tibetani, e numerosi altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono quantomeno assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.
I palestinesi hanno il pieno diritto di fare luce sul – e contrastare il – “limbo legale” nel quale vivono da oltre mezzo secolo e di battersi per ottenere i loro diritti. La supposta sospensione dell’annessione non modificherà, né avrà un impatto, su alcuno degli aspetti menzionati.
Per quale motivo dunque le autorità israeliane hanno deciso di sospendere il processo di annessione? La ragione è meno complessa di quanto possa sembrare: l’amministrazione Netanyahu ha compreso che è più conveniente puntare sulle “annessioni soft” che i palestinesi hanno sperimentato negli ultimi decenni, piuttosto che “ufficializzare” le annessioni selettive paventate nei mesi scorsi.
Si noti che circa il 94% dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania (dunque in territorio palestinese) è trasportato in Israele: questa e numerose altre simili politiche, legate sia alle materie prime che alle persone, verranno mantenute tanto in presenza quanto in assenza della normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
Una questione multi-dimensionale
Gli Emirati Arabi Uniti hanno una popolazione di meno di 1 milione di cittadini regolarmente registrati: ognuno di essi è soggetto a una ferrea censura legata alla libertà di espressione. Rappresentano il primo Paese arabo del Golfo Persico e il terzo Stato arabo – dopo l’Egitto (1979) e la Giordania (1994) – ad aver annunciato l’instaurazione di relazioni ufficiali con Israele.
Questo “storico accordo”, così come era già accaduto con l’“Accordo del secolo” annunciato lo scorso gennaio dall’amministrazione Trump, ha in realtà poco a che vedere con la Cisgiordania, o con qualsiasi altro aspetto legato al conflitto israelo-palestinese. Il vero obiettivo di entrambi gli accordi è rintracciabile nel processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi del Golfo Persico (Iran escluso).
Per rimanere allo specifico caso delle relazioni tra Israele e gli Emirati, entrambi i paesi hanno molto da guadagnare dall’accordo.
Annunciando di non voler procedere con le annessioni selettive di alcune parti della Cisgiordania (le più utili e ricche di risorse), le autorità israeliane possono continuare a sostenere che l’occupazione del territorio palestinese è temporanea, auto-assolvendosi in questo modo dall’obbligo legale di prendersi delle responsabilità in relazione ai palestinesi presenti in loco.
Quanto agli Emirati Arabi Uniti, – impegnati in prima linea nella guerra nello Yemen e con i quali già da alcuni anni Israele ha stipulato accordi legati alle armi e all’intelligence – il “processo di normalizzazione” consente al Paese di aumentare la propria influenza regionale. Negli ultimi anni Israele si è infatti trasformato in un fattore chiave tanto per gli Emirati quanto per altri paesi del Golfo, i quali utilizzano la “carta israeliana” per aumentare la propria influenza regionale, limitare il ruolo di paesi come l’Iran e la Turchia e rafforzare le proprie relazioni con gli Stati Uniti.
Due ordini regionali
Questi aspetti non possono tuttavia essere pienamente compresi senza includere nell’equazione le due “agende” regionali e internazionali che si stanno confrontando per il controllo di larga parte del Medio Oriente e delle sue risorse naturali.
La prima delle due, tendenzialmente intra-regionale (a dispetto dell’appoggio a fasi alterne offerto da Mosca), punta a mantenere e a rafforzare l’asse che unisce Teheran, Baghdad, Damasco e Beirut. La seconda – appoggiata da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – mira invece a imporre un nuovo ordine regionale in larga parte influenzato dagli Stati Uniti e sostenuto da Israele.
È proprio questa seconda agenda quella che al momento sembrerebbe avere il sopravvento, come confermato dalle sanzioni imposte da Washington all’Iran e da numerose altre dinamiche strategiche registrate negli ultimi anni.
Si pensi ad esempio alla repentina elevazione (giugno 2017) di Mohammed bin Salman alla posizione di principe ereditario della corona saudita: una decisione che Washington ha prima accettato e poi sostenuto ponendo la condizione che Riad perseguisse nella regione politiche in linea con gli interessi degli Stati Uniti e di Israele. Altri esempi includono la decisione (giugno 2017) di alcuni Stati del Golfo e dell’Egitto di tagliare i legami con il Qatar, considerato ostile agli interessi sauditi ed emiratini nella regione, e più di recente il già citato “Accordo del secolo” imposto unilateralmente (giugno 2020) dall’amministrazione Trump nel contesto israelo-palestinese.
Due diritti, una pace
La leadership palestinese – dispotica, repressiva e non rappresentativa – appare ancora una volta spettatrice degli eventi che stanno determinando il presente e futuro del suo popolo. Le autorità israeliane, d’altra parte, mirano a massimizzare l’“annessione soft” di parte del territorio occupato palestinese. Per farlo, contano paradossalmente sul sostegno economico offerto dall’Unione Europea – considerata funzionale a tenere in vita l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in Cisgiordania – e del Qatar, utile a non far “sprofondare” la Striscia di Gaza al di sotto della soglia della vivibilità.
In un quadro così complesso e senza apparenti soluzioni, è probabile che nei mesi e negli anni a seguire assisteremo a un ulteriore aumento dei tentativi volti a promuovere una soluzione del conflitto basata esclusivamente sul rispetto dei diritti umani, nel contesto di un singolo stato binazionale.
Abbandonare o minare il principio di autodeterminazione del popolo palestinese è tuttavia rischioso. Come notato dall’imprenditore palestino-statunitense Sam Bahour, nel momento in cui la lotta si riduce esclusivamente a un tentativo volto a ottenere diritti civili, “il gioco è finito, anche se la lotta per raggiungere pieni diritti si protraesse per altri cento anni”. Qualsiasi approccio volto a sostenere il rispetto dei diritti umani e civili deve essere necessariamente legato anche all’affermazione del diritto all’autodeterminazione, tanto del popolo israeliano quanto di quello palestinese.
È lecito dunque chiedersi in quale direzione sono chiamati a investire le proprie energie quanti non hanno abbandonato l’idea che ci sia ancora spazio per l’affermazione di una modica quantità di giustizia.
Il riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese (includente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza) da parte di tutti i paesi membri dell’Unione Europea (che è attualmente il principale partner commerciale di Israele); l’implementazione di una più efficace politica di “differenziazione” tra Israele e il territorio occupato palestinese; l’imposizione di ferree sanzioni economiche e politiche nei riguardi di ogni attore, statale e non-statale, che si ponga in contrasto con il consenso internazionale: nessuna di queste politiche è di per sé in grado di portare all’affermazione di una pace sostenibile, ma ognuna di esse rappresenta un necessario passo in quella direzione.
L’alternativa è continuare a far finta che le annessioni selettive non proseguiranno e che milioni di esseri umani possano vivere per altri cinquant’anni senza diritti e senza un futuro: si tratterebbe dell’ennesimo assist in favore degli estremisti di tutte le parti in causa.