È un vero e proprio terremoto politico quello innescato dalle ultime elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Il risultato piuttosto deludente per i Repubblicani si è abbattuto sulla leadership dell’Elefantino e, soprattutto, su Donald Trump. L’”onda rossa”, che era stata profetizzata da alcuni, alla fine non si è verificata. Per quanto d’un soffio e indipendentemente dal ballottaggio in Georgia del 6 dicembre, i Democratici sono riusciti infatti a mantenere il controllo del Senato, mentre i Repubblicani hanno, sì, conquistato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ma con un margine inferiore rispetto al previsto.
Trump è sul banco degli imputati. Nonostante alcuni candidati indicati da lui abbiano conseguito buoni risultati (si pensi soltanto a JD Vance nella corsa senatoriale dell’Ohio o a Ted Budd in quella del North Carolina), svariate figure da lui appoggiate sono miserevolmente naufragate. Probabilmente lo smacco più eclatante si è verificato in Pennsylvania, dove il trumpista Mehmet Oz è stato battuto dal democratico John Fetterman. Un problema duplice per l’ex presidente repubblicano. Non solo questa sconfitta ha regalato all’Asinello un seggio senatoriale precedentemente detenuto dall’Elefantino, ma – più nello specifico – Trump si era spesso vantato di essere competitivo in un’area operaia ed elettoralmente strategica (soprattutto per le presidenziali) come la Pennsylvania. In tutto questo, un’ulteriore grana per l’ex presidente si è rivelata la disfatta di Adam Laxalt per il seggio senatoriale del Nevada.
Trump si è quindi ritrovato politicamente azzoppato, sebbene ciò non gli abbia impedito di annunciare una nuova campagna presidenziale il 15 novembre: una mossa che è stata tuttavia accolta con freddezza da vari settori del Partito Repubblicano e del mondo conservatore statunitense (si pensi solo all’irritazione mostrata dal magnate Rupert Murdoch). Non è quindi affatto escludibile che, alla fine, le primarie per la nomination del 2024 si riveleranno più affollate del previsto. Innanzitutto sembra proprio che stia scaldando i motori Ron DeSantis: il governatore della Florida è stato trionfalmente rieletto lo scorso 8 novembre, mentre il suo Stato, un tempo “swing” per eccellenza, si sta trasformando progressivamente in un vero e proprio bastione repubblicano. D’altronde, DeSantis non ha mai fatto troppo mistero delle sue ambizioni presidenziali: un fattore, questo, che ha portato di recente a rapporti piuttosto tesi tra lui e lo stesso Trump. Un’altra figura che potrebbe presto scendere in campo è il governatore della Virginia, Glenn Youngkin: non a caso, anche lui è finito nel mirino dell’ex presidente.
Sulla carta, sia DeSantis sia Youngkin possono contare su delle carte tutt’altro che irrilevanti. Se il governatore della Florida può far leva su un carisma significativo, il collega virginiano ha mostrato l’anno scorso buone doti di federatore. Altri papabili nomi, come quello dell’ex segretario di Stato Mike Pompeo o dell’ex ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley, mostrerebbero un interesse maggiore sui dossier di politica estera. Tuttavia l’aspetto forse più rilevante risiede nel comprendere che lo scontro in atto all’interno del Partito Repubblicano non è tanto di natura politico-ideologica, ma presenta semmai un carattere personalistico e (soprattutto) generazionale.
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Il trumpismo, inteso come fenomeno politologico caratterizzato da una maggiore attenzione verso le classi lavoratrici e le minoranze etniche, è stato ormai assimilato da gran parte della struttura del Partito Repubblicano. Il dibattito attuale non riguarda quindi tanto l’agenda programmatica ma chi debba portarla avanti. È su questo nodo che si dipaneranno prevedibilmente le prossime primarie repubblicane. Primarie che, se non verranno incanalate per tempo in un’ottica di coesione partitica, rischiano seriamente di dilaniare l’Elefantino al suo interno, fornendo indirettamente un assist all’Asinello.
Attenzione però: se i Repubblicani hanno molteplici grattacapi, non significa che i Democratici possano cantare vittoria. Nonostante i risultati delle Midterm siano andati meno peggio del previsto, Joe Biden ha comunque perso la maggioranza alla Camera: il presidente non diverrà quindi soltanto la proverbiale anatra zoppa, ma rischia anche seriamente indagini parlamentari e (per quanto meno probabilmente, visti i numeri risicati) un impeachment da parte dei suoi avversari. L’ipotesi di una procedura di messa in stato d’accusa era stata ventilata nei mesi scorsi da vari big repubblicani (come il deputato Jim Jordan e il senatore Lindsey Graham): è comunque evidente che, qualora venisse intrapresa, questa strada non sarebbe concretamente finalizzata alla destituzione dell’inquilino della Casa Bianca (il quorum di voti necessari al Senato infatti non ci sarebbe), ma semmai a cercare di paralizzare ulteriormente la sua già traballante agenda parlamentare.
È pur vero che, anziché arroccarsi sui veti e sullo scontro frontale, Biden potrebbe cercare di tendere un ramoscello d’ulivo ai deputati repubblicani più centristi. Tuttavia una simile strategia lo esporrebbe verosimilmente al fuoco amico della sinistra democratica, che non vuole sentir parlare di compromessi con l’Elefantino. Biden rischia quindi di ritrovarsi presto in un vicolo cieco: uno scenario che potrebbe gettare un’ombra su una sua eventuale ricandidatura presidenziale.
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L’inquilino della Casa Bianca ha lasciato intendere di essere intenzionato a correre per una seconda volta, anche se scioglierà le riserve non prima dell’inizio dell’anno prossimo. Non va comunque trascurato che il presidente in carica sconta una notevole impopolarità all’interno del suo stesso partito e che, a sinistra, qualcuno potrebbe teoricamente decidere di contestargli la nomination presidenziale in caso di sua ricandidatura (un po’ come fece Ted Kennedy con Jimmy Carter nel 1980). In entrambi i campi regna, insomma, l’incertezza.