Perché l’Europa non può permettersi la “Brexit fatigue”

In un paese di scommettitori seriali, nessuno se la sente di prevedere l’esito delle Brexit elections del dicembre prossimo. Le variabili, in queste terze elezioni britanniche nel giro di quattro anni, sono decisamente troppe. Il premier attuale, Boris Johnson, è sulla carta favorito. Ma nonostante la debolezza del Labour, la crescita dei piccoli partiti, il peso del Brexit Party e l’ascesa dei nazionalisti scozzesi rendono queste elezioni “storiche” (le più importanti dell’epoca recente, si sostiene a Londra) quanto mai incerte. Elezioni cruciali e imprevedibili, quindi. E tutto questo mentre lo psicodramma di Brexit, dopo avere fortemente danneggiato l’immagine della democrazia britannica e polarizzato il paese, mette perfino a rischio l’integrità del Regno Unito.

Se i commentatori britannici rinunciano a scommettere sul proprio paese, i politici europei non ne possono quasi più: la “Brexit fatigue”, a Bruxelles e nelle capitali nazionali, è palpabile. Se questo tipo di reazione è comprensibile, a tre anni dal referendum del giugno 2016, la realtà dovrà spingere tuttavia in senso opposto. La realtà, infatti, è che – al di là dell’accordo di ritiro – molto, quasi tutto, resta comunque da negoziare sui futuri rapporti fra la Gran Bretagna e l’UE. Ammesso che Brexit riesca, la trattativa vera deve ancora cominciare. E durerà anni.

Ci si può e deve chiedere, allora, cosa convenga all’Europa. Finora le capitali continentali sono rimaste sufficientemente unite nel gestire le incertezze di Londra e nel contenere pretese non accettabili: l’UE ha difeso soprattutto l’integrità del mercato unico e limitato così il “moral hazard” implicito nell’uscita di un Paese-membro. L’Europa si è mossa quindi, dal 2016 ad oggi, con (non scontata) coerenza. Ma il quadro potrebbe adesso complicarsi anche sul lato continentale. Cerchiamo di capire perché, guardando a Parigi e Berlino.

La Francia di Emmanuel Macron spinge per una chiusura rapida della vicenda, tutto sommato augurandosi che Brexit avvenga davvero e in tempi ravvicinati – valutando dunque che i costi siano ormai inferiori ai vantaggi. Il calcolo di Parigi è che l’uscita di Londra conferisca alla Francia un ruolo accresciuto quale unica potenza nucleare europea e membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Macron ritiene anche che le riforme europee a cui aspira siano un po’ più semplici da realizzare (si vedrà se è davvero così, in realtà se ne può dubitare) con Londra fuori dal gioco.

D’altra parte, la Francia (così come l’Olanda del resto, e la maggioranza degli europei) teme la competizione commerciale con una sorta di “Singapore sul Tamigi”, quale Londra potrebbe diventare attuando una forte “deregulation” rispetto al mercato continentale. Per questo, se e quando si discuterà un nuovo accordo commerciale fra l’UE e la UK, per Londra non sarà così semplice o rapido ottenere il tipo di status – un FTA tipo Canada – cui sembra aspirare. All’inverso, Parigi è pronta a concedere alla Gran Bretagna, riconoscendone il peso tecnologico e militare, accordi speciali in materia di sicurezza e difesa.

La Germania è su una posizione più sfumata, con accenti diversi da quella francese: più disposta a perdonare le nevrosi britanniche ed eventualmente favorevole a concedere ancora tempo pur di tenere ancorato il vecchio alleato anglosassone – calcolando che convenga evitare lo shock di un divorzio poco amichevole, visto l’interesse europeo a coltivare comunque rapporti di collaborazione in vari settori-chiave. La Germania, per ragioni interne, è oggi meno interessata a riforme europee di quanto non sia la Francia; e teme invece, con l’uscita inglese, una gravitazione di Londra verso potenze extra-europee.

In sostanza: dopo avere retto bene all’urto dello psicodramma di Brexit nella “fase 1” (la decisione sul divorzio da prendere oltremanica), l’unità europea rischia di indebolirsi nella “fase 2” (come divorziare in dettaglio e quali nuovi rapporti stabilire fra l’UE e Londra).

Certo, per l’Europa  è l’ennesimo segnale che una prospettiva strategica non è mai facile da sviluppare: la perdita eventuale della Gran Bretagna ha un impatto geopolitico potenzialmente negativo che gli europei tendono, in modi diversi, a sottovalutare. Ed è anche per questo limite che l’idea di una “Commissione geopolitica” proposta da Ursula von der Leyen – in teoria un’idea giusta – appare in parte ambiziosa e in parte prematura: il decollo del nuovo esecutivo di Bruxelles vive a sua volta una sorta di rinvio. E si sta dimostrando, nei rapporti con il Parlamento europeo, più difficile del previsto.

Per l’Italia, i termini del calcolo costi/benefici rispetto a Brexit sono forse più chiari: il nostro export certamente beneficia della membership britannica e in chiave geopolitica Londra è stata in varie occasioni una sponda preziosa per bilanciare il peso, cui il nostro paese è sempre stato un po’ allergico, della “coppia” franco-tedesca. Dal punto di vista di Roma, insomma, l’interesse prioritario è che Londra rimanga il più possibile strettamente legata all’UE. Ciò offre maggiori opzioni a un paese come il nostro, che già soffre lo spostamento verso Est del baricentro continentale dell’UE, con una relativa marginalità degli interessi italiani verso Sud.

Si può sostenere, è vero, che in assenza di Londra l’Italia sarebbe un naturale terzo partner fisso di Parigi e Berlino; ma questa sembra un’ipotesi teorica, o una vecchia idea, senza grandi conferme nei fatti. Troppo rischioso, alla fine, scommettere tutto su questo.

 

 

 

* questo articolo è la versione di un testo uscito su La Stampa il 3 novembre 2019

 

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