Perché l’America avrà una politica estera attiva e interventista

 Nel suo discorso di inaugurazione, il neopresidente Joe Biden ha ripreso alcune delle più tradizionali metafore sul ruolo americano nel mondo. Ha prefigurato gli Stati Uniti come “faro” dei valori democratici, non soltanto grazie all’esempio della loro forza ma soprattutto alla forza del loro esempio. Si potrebbero derubricare queste affermazioni come un buon esercizio di retorica, a fronte delle enormi sfide interne che il Paese deve ora affrontare. Lo stesso 46° presidente ha infatti espresso, in modo chiarissimo e reiterato, l’esigenza di fondare una nuova fase di leadership internazionale su un consolidamento e un rinnovamento interno – operazione che certo richiederà molte energie e che incontrerà seri ostacoli. E’ inoltre un dato di fatto che gli equilibri globali sono oggi meno favorevoli a qualunque tipo di “ordine” a guida americana rispetto a quattro anni fa.

Joen Biden al momento del giuramento

 

Se dunque vi saranno limiti e vincoli all’azione internazionale di Washington, è essenziale però non fraintendere le intenzioni dell’amministrazione Biden e ancor più la storia della politica estera americana: il ruolo di leadership e di grande potenza non ha assunto soltanto la forma degli interventi militari, e nel prossimo futuro vedremo gli Stati Uniti impegnati in ogni caso in una diplomazia molto attiva.

Facciamo un breve passo indietro per ricordare a sommi capi le scelte dell’amministrazione Trump in politica estera, e in particolare i loro effetti pratici. Con l’eccezione degli “Accordi di Abramo” tra Israele e alcuni Paesi arabi, la sostanza di “America First” si è rivelata come un mix di sanzioni, dazi commerciali, minacce militari e vaghe proposte negoziali “transattive” (cioè solitamente di corto respiro). L’approccio quasi totalmente unilaterale ai maggiori dossier ha però prodotto effetti a cascata su alleati, partner problematici e avversari, anche quando la Casa Bianca sosteneva di non voler sostenere i costi di impegni internazionali pregressi (che si trattasse di schieramenti militari, accordi diplomatici, partnership economiche). In altre parole, la decisione di “non fare”, e di ridurre il coinvolgimento diretto, ha causato dei vuoti di potere ma ha simultaneamente alterato gli assetti preesistenti.

Le dinamiche globali, dal Medio Oriente ai rapporti transatlantici fino alla Russia o all’Asia orientale, non funzionano semplicemente per addizione e sottrazione, perché il sistema in cui viviamo è fortemente interdipendente e connesso. Se la maggiore potenza mondiale si svincola dai rapporti diplomatici e diventa praticamente imprevedibile, senza impostare alcun meccanismo regionale o settoriale alternativo, il mondo cambia in modo non lineare. Ed è difficile riportarlo alla situazione precedente, se e quando si decide di farlo.

E’ da qui che dobbiamo partire per valutare le opzioni che si aprono con l’amministrazione Biden.

Se con Trump la riduzione degli impegni ha causato un effetto-domino su quasi tutti i dossier multilaterali, con il suo successore la ripresa di regolari contatti multilaterali causerà un diverso effetto-domino, cambiando l’equazione degli interessi (sia in termini di rischi che di opportunità). Sarà così per la Cina, per gli alleati europei e la UE nel suo complesso, per la NATO, per i grandi Paesi emergenti, per le “medie potenze” regionali ambiziose. Inoltre, dovremo tutti abituarci nuovamente a un governo americano che funziona come una squadra, in cui i collaboratori del presidente possono realmente prendere impegni e in cui gli inviati speciali su singole questioni portano messaggi negoziali precisi.

La squadra di politica estera, sicurezza, commercio internazionale che è stata assemblata dal neopresidente si compone di molte figure con esperienze di governo negli otto anni di Barack Obama. Sono funzionari e tecnici con una spiccata consapevolezza delle interconnessioni globali: ne emergerà dunque una visione del mondo che interpreta gli interessi americani in modo estensivo e reticolare. Comprendere la natura reticolare del mondo del XXI secolo rende visibili i collegamenti tra diversi settori di azione, come la finanza e la tecnologia, l’energia e i cambiamenti sociali, l’ambiente e il benessere economico, le migrazioni e la geopolitica.

Tutto ciò significa che gli Stati Uniti saranno presenti, diplomaticamente impegnati e talvolta molto assertivi – ma non saranno certo gli unici protagonisti né avranno sempre la volontà o la capacità di imporre le proprie posizioni. E’ assai probabile che continuerà una certa riluttanza a utilizzare la forza militare e spendere risorse ingenti in teatri come il Medio Oriente (la tendenza che era emersa con Obama, prima ancora che con Trump); è altrettanto vero che intanto l’America dovrà rimettere in sesto la propria economia e ricompattare il proprio tessuto sociale. Ma se e quando l’amministrazione Biden identificherà dei punti su cui fare leva per perseguire gli interessi nazionali e orientare gli equilibri globali, farà ricorso a tutti gli strumenti di influenza e di intervento, diretto o indiretto.

Insomma, come europei non saremo sempre d’accordo con Washington, mentre avremo decisioni impegnative da prendere e responsabilità da assumere; ma non dovremo preoccuparci di un’America isolazionista.

 

 

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