Nessuno parla di attacco, qui in Cisgiordania. Quello del 7 ottobre è: “radit fi’il“. La reazione. E la guerra, ora, non è la guerra, ma “akbar forsa“. L’opportunità migliore di sempre. Comunque andrà, “Hamas ha già vinto”.
Non è quello che si legge sulla stampa europea. E tanto meno su quella americana. Soprattutto adesso che Hassan Nasrallah si è tirato indietro, in un certo senso, dopo il discorso del 3 novembre. Escludendo un maggiore ruolo della sua Hezbollah, e un allargamento del conflitto. Puntiamo tutto sul Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, ancora, che a 88 anni non ha molto futuro a prescindere da tutto, e su due sempreverdi dei momenti di crisi: Salam Fayyad, funzionario della Banca Mondiale, primo ministro dei governi tecnici che hanno modernizzato Ramallah, teorico della pace tramite l’economia, e Mohammed Dahlan, a lungo capo delle forze di sicurezza tra Gaza e Cisgiordania, e ora imprenditore a Dubai, e filantropo, considerato l’artefice degli Accordi di Abramo. Il primo, alle elezioni del 2006, le uniche, con la sua Third Way non ha avuto che il 2,4%. Il secondo, dalle elezioni è fuori: per svariate condanne per malversazione e appropriazione indebita. Ma per quanto personaggi così siano sulle nostre prime pagine, non cambia niente: i palestinesi sono tutti con Hamas.
Non con Hamas in sé, ovviamente. Con Hamas come simbolo di azione. Di iniziativa. Nessuno ha voglia di sentirselo dire, a cominciare da Israele, che insiste nel ripetere che non si fermerà fino a quando non eliminerà Hamas: ma neanche Israele riuscirà a tornare al 6 ottobre.
E la prima a non tornarci sarà Gaza. A un prezzo che è già sopra i 10mila morti: ma Gaza è sostanzialmente sotto assedio dal 2005. Dal cosiddetto Disengagement di Ariel Sharon, il ritiro di Israele – e dei suoi 8mila coloni, sparsi in 21 insediamenti. Erano gli anni in cui l’IDF calcolava le calorie minime medie indispensabili alla sopravvivenza, 2.279 pro capite: e non faceva entrare nella Striscia una briciola in più. Secondo l’ONU, nel 2020 Gaza sarebbe diventata inadatta alla vita: e siamo nel 2023. Che si opti per un governo tecnico, o per una amministrazione dell’ONU, o della Lega Araba, o dell’OLP, o persino per il controverso Mohammed Dahlan: per Gaza tutto è meglio di adesso.
Delle cinque guerre di Gaza, alla fine questa sarà l’unica anche per Gaza. E di questo i palestinesi saranno grati a Hamas. Per sempre.
Ma in più, il 7 ottobre è andato probabilmente oltre i piani di Hamas, il cui obiettivo, a quanto sembra, era solo avere più ostaggi possibile: merce di scambio. Invece, sfondate le barriere, Hamas non ha trovato linee di difesa. E’ dilagata. Svelando tutta la vulnerabilità di Israele, e per estensione, dell’Occidente da cui Israele è sostenuto.
Anche il linguaggio sta cambiando. L’IDF, le Israel Defense Forces, già ribattezzate dai palestinesi “IOF”, Israel Occupation Forces, sono ora sui canali Telegram di Hamas le “US-funded IOS” – con 3,8 miliardi di dollari l’anno, gli Stati Uniti coprono il 16% del loro bilancio. E l’Occupazione, da tempo tra i palestinesi sinonimo di “Israele”, è ora la “EU-funded Occupation”, in riferimento ai tanti progetti pagati dall’Europa che hanno avuto l’effetto perverso di rendere stabile la presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania. Aree che per anni sono state il ritrovo degli attivisti internazionali, come Sheikh Jarrah, villaggio palestinese dentro Gerusalemme, sono adesso off-limits. Se sei europeo, o americano, sei più che complice: sei equiparato a un israeliano. E resti fuori.
Tutti si domandano se il Libano diventerà un secondo fronte, prima o poi, o magari la West Bank. Ma è questo, in realtà, il secondo fronte: questa guerra già in corso. Secondo fronte dell’Ucraina. Nella guerra globale per la sfida al “nostro” potere. Il 26 ottobre Basem Naim, numero due di Yahya Sinwar, che è il capo di Hamas a Gaza, è comparso a Mosca. Ricevuto con tanto di tappeto rosso.
Ma soprattutto, dal 7 ottobre i palestinesi sono di nuovo protagonisti. Con la Primavera Araba, erano finiti ai margini. E poi, ancora di più, con gli Accordi di Abramo e l’imminente intesa di Israele con l’Arabia Saudita. Si era avuto l’incontro tra ministri degli Affari Esteri in Libia. La strada ormai era tracciata: ed era la normalizzazione. Ora, invece, il Bahrain, la Giordania, la Turchia hanno ritirato il proprio ambasciatore. A riprova che nella vita, e nel mondo, non conta solo l’economia.
Hamas avrà problemi. Ed è presto per dire cosa ne resterà – chi resterà. Tra l’altro, il movimento ha sempre avuto varie anime, e in questo momento, è diviso su una questione non proprio secondaria: il riconoscimento di Israele. Più che Hamas, ha vinto l’idea di Hamas. Ma non c’è dubbio: non si tornerà al 6 ottobre. E il venerdì a Gerusalemme ora gli arabi pregano in ginocchio sulla sua bandiera verde.