Perché conviene tenersi Barroso

La Commissione europea, il cui mandato scade alla fine di quest’anno – il 31 ottobre secondo il calendario ufficiale, ma con la possibilità di aggiustamenti marginali alla luce degli sviluppi del previsto secondo referendum irlandese sul Trattato di Lisbona – ha attraversato un numero di crisi senza precedenti.

I due “no” popolari (francese e olandese) al Trattato costituzionale, nel 2005, e il “no” irlandese al successivo Trattato di Lisbona, nel 2008, hanno pesantemente condizionato l’attività dell’esecutivo presieduto da José Manuel Barroso. Ma non bisogna dimenticare che, già prima del 2005, la scelta stessa di Barroso era stata piuttosto controversa, dopo il veto britannico all’allora premier belga Guy Verhofstadt e l’appoggio piuttosto tiepido di Francia e Germania al premier portoghese, che si era schierato con Blair e Aznar a favore della guerra in Iraq. Non va neanche scordato che il nuovo esecutivo era passato attraverso l’ormai famosa “crisi delle investiture” al Parlamento europeo, che aveva costretto Barroso a spingere per la sostituzione di un paio di commissari (incluso quello italiano) e a operare un piccolo rimescolamento di portafogli per ottenere il via libera dall’assemblea di Strasburgo, nell’autunno del 2004.

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Le tappe della perdita di legittimità della Commissione (e dell’Unione).

La perdita di legittimità della Commissione, in altre parole, è andata di pari passo con la perdita di legittimità dell’Unione Europea nel suo complesso, anche se le responsabilità dei referendum falliti del 2005-08 restano principalmente nazionali. Non si può del resto ignorare la partecipazione sempre più ridotta dei cittadini alle elezioni europee, che toglie legittimità anche a un Parlamento i cui poteri, peraltro, sono in crescita costante da una ventina d’anni. E neanche che tutti i sondaggi d’opinione registrano un calo di entusiasmo – perfino in un paese tradizionalmente europeista come l’Italia – per il processo d’integrazione. La Commissione risente evidentemente di questo clima e appare sempre più, all’esterno come all’interno del pianeta Bruxelles, come il giocatore in perdita nel presunto gioco a somma zero fra le istituzioni europee.

Sarebbe ingiusto attribuire la responsabilità di tutto questo a Barroso e ai suoi colleghi. Il crepuscolo della Commissione Delors era cominciato proprio col suo impegno diretto nel referendum danese del 1992 sul Trattato di Maastricht, il cui esito negativo inflisse un primo colpo anche al collegio. E il declino dell’esecutivo di Bruxelles come “motore” dell’integrazione europea data da ben prima del 2004. È probabilmente dovuto a un mix fra il mito dell’“età dell’oro” di Jacques Delors (1984-94) – una stagione per molti versi unica, la cui irripetibilità ha però perseguitato un po’ tutti i suoi successori – e gli effetti di feedback generati da alcune delle stesse politiche lanciate da Delors e dai cambiamenti in atto anche al di fuori dell’Unione.

Jacques Delors non era stato soltanto un brillante e determinato Presidente della Commissione, spalleggiato da un efficacissimo capo di gabinetto (Pascal Lamy) e da alcuni colleghi di grandi capacità. Delors era stato anche il traduttore e, a volte, l’ispiratore della convergenza fra la Francia di François Mitterrand e la Germania di Helmut Kohl – spalleggiate da Benelux, Italia e poi anche Spagna – in una Comunità/Unione ancora “piccola”, prima a dieci e poi a dodici membri. Sul grande progetto del mercato unico, perfino Margaret Thatcher si era alla fine allineata al consenso esistente.

Il no danese del 1992, la lenta agonia dell’era Mitterrand dopo le elezioni politiche del 1993 e dell’era Kohl dopo quelle del 1994, e l’adesione di Svezia, Finlandia e Austria nel 1995 segnarono, rispetto a questa eredità, uno spartiacque decisivo. Con il “motore” franco-tedesco inceppato (e riattivatosi solo fra l’autunno 2002 e la primavera 2005 in chiave anti-Bush e a difesa di interessi molto specifici); il Benelux ormai “sfarinatosi” per la deriva olandese; e un’Italia incerta e oscillante, troppo presa da se stessa, il processo d’integrazione e la stessa Commissione si sono trovati, di fatto, senza azionisti di riferimento in una fase in cui l’allargamento dell’Unione – peraltro uno dei grandi successi (se non l’unico) della fase post euro – cambiava i termini stessi del policy makingcomunitario.

A tutto ciò va aggiunto che, con il completamento del mercato unico e l’incorporazione di Schengen nei trattati, la dimensione comunitaria è diventata sempre più “interdomestica” (intermestic, in gergo), sempre meno prerogativa dei diplomatici impegnati a livello di COREPER (e degli stessi funzionari del Tesoro), e sempre più terreno d’azione e d’incursione dei vari ministeri nazionali. Il peso crescente della dimensione inter-governativa è anche un effetto di questi sviluppi, e ha portato a un’avocazione di competenze e decisioni – anche a livello di arbitraggi e mercanteggiamenti dell’ultima ora – da parte del Consiglio europeo e della presidenza di turno, a scapito della Commissione o degli stessi CAGRE (i ministri degli Esteri) ed ECOFIN (ministri delle Finanze). Si tratta di fenomeni che si sono manifestati già prima del 2004, anche se si sono indubbiamente accentuati nel corso di questi ultimi anni.

 

La riforma delle istituzioni: nessun “grande balzo in avanti”.

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Le grandi difficoltà incontrate nella riforma delle istituzioni – a livello non solo di referendum ma anche di negoziati fra i governi (nel 2000, 2003-04 e 2007) – hanno a loro volta evidenziato un possibile limite strutturale quanto a possibilità di trasferire sempre più competenze a Bruxelles e, in particolare, alla Commissione. Le sfere di azione pubblica nazionale (e subnazionale) toccate dalla legislazione europea sono ormai tante e tali da imporre una collaborazione attiva dei ministeri e delle amministrazioni competenti, che sono a loro volta divisi fra la volontà di preservare certe loro prerogative e la consapevolezza della necessità di operare a livello, se non sovranazionale, quanto meno transnazionale: per ragioni, se non altro, di efficacia. Si pensi soltanto ai ministeri degli Interni o della Giustizia, in quella che è diventata – proprio durante il mandato della Commissione Barroso – l’area più prolifica in termini di legislazione europea.

In altre parole, se e quando il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, non ci saranno da aspettarsi “grandi balzi in avanti” del processo di riforma delle istituzioni europee. Una certa “fatica”, o soltanto frustrazione, si è ormai impadronita anche dei più convinti fautori dell’integrazione, frutto certo dei ripetuti scacchi subiti nei referendum popolari via via convocati, ma legata forse anche alla sensazione che il quadro definito da Lisbona sarà probabilmente destinato a restare in vigore per molto tempo. Eventualmente, sarà semmai modificato più sotto la spinta di sfide e costrizioni esterne (a cominciare dalle crisi che abbiamo conosciuto nell’ultimo anno) che non di impulsi e progetti interni all’Unione. E il Trattato di Lisbona non contiene certo disposizioni che rafforzano il ruolo della Commissione – al contrario.

Neppure il “Big Bang” del 2004 – con l’adesione di dieci nuovi membri (dodici dal 2006) – ha facilitato il lavoro dell’esecutivo di Bruxelles. È vero che ne ha accresciuto la legittimità nei nuovi paesi membri, che hanno visto nei “loro” Commissari degli interfaccia politici e simbolici, almeno fino a che sono stati espressione delle maggioranze al governo nelle varie capitali. Tuttavia, l’allargamento ha portato con sé la nuova regola di un Commissario per paese membro, ancorata a suo tempo nel Trattato di Nizza (2000) come norma temporanea, e rivisitata poi nei testi successivi fino alla fissazione del principio dei due terzi (a rotazione) a partire dal 2014. Si possono ovviamente nutrire legittime e comprensibili riserve sulla saggezza di questo principio, che avrebbe probabilmente conseguenze molto serie sulla legittimità del collegio senza forse ovviare del tutto ai suoi problemi di funzionalità.

Ma non c’è dubbio che la regola dell’1×1 (un commissario per paese membro) ha avuto un certo impatto – pratico e psicologico – sul modus operandi della Commissione, accentuando la vocazione “nazionale” di diversi suoi membri (e dei rispettivi gabinetti) e più in generale indebolendo – anche solo per ragioni numeriche – la prassi della collegialità così cara ai padri fondatori e agli europeisti più convinti. Il paradosso è che, fra le “garanzie legalmente vincolanti” richieste dal governo irlandese per convocare un secondo referendum su Lisbona l’autunno prossimo, c’è anche il mantenimento della regola dell’1×1, che renderebbe permanente quello che era un dispositivo solo transitorio – con effetti “sistemici” da non sottovalutare, in vista anche della possibilità di nuove adesioni all’UE.

 

I punti deboli di Barroso

Last but not least, va considerato anche il ruolo svolto dal presidente Barroso. La sua inclinazione a cercare il consenso dei governi nazionali – fin troppo, secondo alcuni critici – è stata in fondo comprensibile, vista soprattutto la sua difficile elezione: “governare” l’UE senza l’appoggio di Francia e Germania sarebbe stata una missione impossibile; e costruire il consenso a 27 è impresa molto più complessa che a dieci o anche quindici, vista anche la crescente eterogeneità politica, economica e sociale dell’Unione allargata. L’assenza di una massa critica di governi disposti a sostenere un’azione più decisa della Commissione ha poi senz’altro contribuito al basso profilo spesso adottato dall’esecutivo in alcuni frangenti importanti, compresa la crisi finanziaria dell’autunno scorso.

La scelta iniziale di Barroso della “Strategia di Lisbona” come grande cavallo di battaglia del suo mandato si è presto rivelata poco felice, alla luce sia delle limitate competenze della Commissione in quel settore che dello scarso impegno di molti Stati membri a perseguirne gli obiettivi, e ha consumato preziose energie e pure un poco di credibilità. D’altra parte, la sfida energetica ha poi offerto al presidente una buona via d’uscita dal cul de sac e un volano più gestibile e duraturo per la sua azione.

Infine, l’ambizione personale di Barroso a un secondo mandato – peraltro legittima in ogni dirigente politico – ha indubbiamente inciso sul suo modo di gestire le relazioni con i capi di Stato e di governo, che restano il collegio elettorale decisivo per la scelta del presidente della Commissione.

A tutto ciò va forse aggiunto anche lo stile di leadership di Barroso, che alcuni hanno definito tipicamente “iberico”: la sua preferenza, ad esempio, per i rapporti bilaterali con i membri del collegio a scapito della dimensione collettiva e collegiale, che ha spesso finito per ridurre i commissari a semplici gestori del loro portafoglio (nonostante la Commissione uscente abbia avuto storicamente la più alta percentuale di ex ministri degli Esteri, e perfino ex primi ministri, fra i suoi membri); il suo uso del segretariato generale e del Servizio legale della Commissione (e ovviamente del proprio gabinetto) come “bracci armati” del presidente, piuttosto che come garanti verso l’amministrazione nel suo complesso; e la sua inclinazione a presentare la Commissione più come un agente al servizio delle altre istituzioni europee che come un attore a titolo proprio. Tutte queste caratteristiche possono avere contribuito a una percezione negativa o comunque minimalista dell’attività dell’esecutivo che, a sua volta, già metteva in conto un certo declino dell’istituzione rispetto a Consiglio e Parlamento.

Per correttezza, va aggiunto che Barroso è stato però un comunicatore molto più efficace dei suoi predecessori; che ha saputo in qualche modo “sterilizzare” la Commissione dagli scacchi referendari degli ultimi anni e, alla fine, anche ottenere appoggi più estesi e meno partisan di quelli che lo avevano portato a Bruxelles nel 2004. Senza contare che, se rieletto, Barroso potrebbe effettivamente sfruttare sia la conoscenza della macchina e dei meccanismi comunitari acquisita durante il primo mandato, che l’opportunità di formare il nuovo collegio da posizioni di forza (anche rispetto agli altri attori istituzionali) e senza doversi più preoccupare – presumibilmente – di una nuova candidatura, nel 2014.

Al di là dell’eventualità di una sua semplice rielezione by default, queste considerazioni non riguardano solo l’uomo ma anche l’istituzione.

 

Le ambiguità della Commissione

La Commissione europea si è finora sviluppata quasi per crescita “organica”, per accumulazione successiva di competenze e di soluzioni ad hoc per accomodare questo o quell’interesse burocratico o politico. Ma oggi non riesce a proiettare all’esterno un’immagine coerente e convincente della propria funzione e “missione”: un po’ guardiana dei trattati (ma non da sola) e un po’ motore dell’integrazione (ma non più tanto); un po’ organo di monitoraggio e controllo, un po’ agenzia di regolazione e un po’, talvolta, anche organo aggiudicativo; un po’ legislatore e un po’ mediatore; un po’ amministratore e un po’ centro studi: insomma, la Commissione è un classico ibrido, ancora ricco di potenzialità in virtù della sua unicità (anzitutto di sola istituzione in grado di articolare l’interesse “comune” europeo al di sopra e al di là di quelli nazionali e settoriali), ma anche sempre più insidiato nel suo ruolo, e non sempre capace di posizionarsi con la necessaria abilità, lungimiranza e flessibilità nei giochi in corso.

La Commissione ha dunque bisogno di rinnovarsi e di farlo da subito, senza aspettare l’entrata in vigore di Lisbona e la sua implementazione, pena un suo ulteriore indebolimento sia all’interno che all’esterno dell’Unione. In questa chiave, la tanto discussa (e da alcuni temuta) eventuale conferma di Barroso potrebbe – paradossalmente – presentare una serie di benefici importanti anche per l’istituzione, oltre che per l’uomo.

 

La presidenzializzazione strisciante

La “presidenzializzazione” strisciante (non nuova di per sé nella storia del collegio, ma inedita nelle sue forme attuali e, soprattutto, ora ancorata nei trattati ed evidente anche nelle altre istituzioni europee); la necessità, imposta dalla regola dell’1×1, di un nuovo trade-off fra eguaglianza dei paesi membri ed eguaglianza dei commissari che, a sua volta, potrebbe consentire un’articolazione diversa del collegio; e la riorganizzazione stessa della nuova Commissione già prima dell’eventuale entrata in vigore di Lisbona: queste potrebbero tutte diventare opportunità per rendere da subito la Commissione più efficace, più “leggibile” nelle sue funzioni, e più capace di rispondere alle ricorrenti crisi a cui l’Europa appare ormai esposta. E che potrebbero diventare a loro volta i nuovi fattori catalizzanti dell’integrazione – come le solidarités de fait di cui parlava Jean Monnet, in un altro contesto, oltre cinquant’anni fa, pensando proprio alla Commissione come allo strumento in grado di dare continuità alla sua visione.

Un presidente rieletto in anticipo rispetto alla nomina delle altre nuove figure istituzionali previste dal Trattato di Lisbona, già familiarizzato con l’istituzione e le sue procedure, e armato di poche buone idee e della volontà di lasciare un’eredità degna di questo nome potrebbe insomma, in questa fase molto particolare del processo di integrazione, fare una differenza. Potrebbe ad esempio cercare di mettere in piedi – in linea con la “presidenzializzazione” in corso – una specie di “West Wing” a Berlaymont, riunendo sotto la sua supervisione una serie di servizi e di funzioni “orizzontali” ora troppo opache e disperse, e imponendone una gestione più coerente e trasparente da parte di tutta la Commissione: dalle relazioni con i cittadini a quelle con i media; dai rapporti col Parlamento europeo a quelli con le diverse future espressioni del Consiglio e della Presidenza; dalla pianificazione politica e ricerca strategica (la vision thing, per restare alla similitudine con gli USA) alla protezione civile e la gestione delle emergenze, non mancano le dimensioni di policy su cui una presidenza forte e determinata potrebbe riorganizzare il lavoro della Commissione.

Proprio perché forte della riconferma, Barroso potrebbe anche permettersi di dare un senso più politico e più operativo al ruolo (finora poco più che protocollare) dei vicepresidenti – anche perché altrimenti almeno uno di loro (l’Alto Rappresentante per la Politica estera col “doppio cappello” creato dal Trattato di Lisbona) finirebbe per diventare un numero due di fatto e anche di diritto, e solo in parte subordinato all’autorità del presidente.

Barroso potrebbe, ad esempio, dare status di vice al commissario per gli Affari economici e monetari che siede al Consiglio ECOFIN, magari attribuendogli anche la delega per la regolazione finanziaria e la supervisione bancaria, e rendendo così meglio visibile quale sarà una delle priorità della prossima Commissione. E potrebbe anche pensare ad avere un quarto vice incaricato delle scelte di “sostenibilità” e di coordinare le politiche comuni in materia di ambiente, energia, infrastrutture, e risorse naturali.

Funzioni di coordinamento e di rappresentanza diventerebbero così i tratti distintivi dei vicepresidenti e, assieme, un vincolo anche per gli altri membri del collegio, indotti a collaborare di più fra loro e a interagire sistematicamente con la “West Wing”. Altre competenze, come quelle in materia di mercato unico, da un lato, e di Europa sociale e “capitale umano” dall’altro, potrebbero essere concentrate e accorpate meglio di quanto non siano oggi, offrendo così anche all’esterno un’immagine più chiara degli aspetti – distinti ma complementari – dell’azione comunitaria in queste aree.

Ma questi sono solo alcuni spunti per dare più sostanza alla tesi (un po’ paradossale e un po’ provocatoria) sui possibili benefici – per la Commissione europea in quanto istituzione – che un’eventuale riconferma di Barroso potrebbe offrire, malgrado la conventional wisdom europeista sia molto scettica al riguardo. D’altra parte, ogni nuova Commissione è anche una specie di “appuntamento al buio”, nel senso che (anche col Tratto di Lisbona) il presidente-eletto deve fare i conti con i nomi e i curricula che gli presentano gli Stati membri, e poi trovare combinazioni e dosaggi che garantiscano un equilibrio accettabile fra paesi, partiti, portafogli e persone, senza inficiare troppo la funzionalità complessiva del collegio. Stavolta, tuttavia, il probabile scarto temporale fra la decisione sul Presidente (a giugno) e la nomina dei Commissari da parte dei governi nazionali (dopo il referendum irlandese, a ottobre) potrebbe consentire una qualche trattativa sui profili dei candidati e gli eventuali portafogli – trattativa che, di nuovo, potrebbe essere condotta con più incisività da un Barroso confermato che non da un presidente-eletto ancora fuori da Berlaymont.

Infine, qualunque innovazione introdotta a livello di collegio dovrebbe poi avere ricadute downstream, sui gabinetti e soprattutto sulle direzioni generali. Diversamente, anche un presidente con un mandato più forte e un’agenda più chiara potrebbe fallire nella missione – che appare al momento quasi impossibile – di rilanciare il ruolo dell’esecutivo comunitario nell’Europa di questo scorcio di XXI secolo.

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Questo articolo è stato prodotto in partnership con ENI

 

 

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