Corridoio di Zangezur, Strada di Syunik, Rotta di Trump per la Pace e la Prosperità Internazionale (TRIPP): tre denominazioni diverse per lo stesso tratto di circa 40 chilometri che, in un futuro non lontano, potrebbe collegare l’Azerbaigian alla sua exclave del Nakhchivan, e da lì alla Turchia, attraversando l’Armenia meridionale parallelamente al confine con l’Iran. Non si tratta, però, di semplici varianti lessicali. Ciascuna riflette una visione politica, rivelando le intenzioni di chi la impiega. La scelta linguistica diviene così una chiave di lettura per interpretare i cambiamenti che hanno interessato il Caucaso meridionale negli ultimi anni, suggerendo le possibili traiettorie future della regione.
La prima designazione, Corridoio di Zangezur, evoca una minaccia diretta alla sovranità dell’Armenia: un passaggio extraterritoriale rivendicato dall’Azerbaigian, che in più occasioni ha prospettato un ricorso alla forza militare per ottenerne il controllo. La seconda (Strada di Syunik), adottata invece da Erevan, prende il suo nome dalla provincia chiamata a ospitare la strada, concepita come parte integrante dell’infrastruttura nazionale, sottoposta alla giurisdizione dello Stato e inserita in un ampio processo di riapertura di tutte le vie di comunicazione regionali. E infine, la terza, di recente coniazione, è un omaggio al presidente statunitense Donald Trump, che l’8 agosto ha accolto alla Casa Bianca il suo omologo azero Ilham Aliyev e il premier armeno Nikol Pashinyan. L’intervento di Washington pare aver trovato il punto di incontro tra le posizioni inconciliabili dei due Paesi in guerra da oltre un trentennio, individuando una soluzione che prevede la partecipazione di aziende americane nella realizzazione e nella gestione della tratta.
Il vertice è stato largamente salutato come storico: a sorpresa, Baku e Erevan hanno scelto gli Stati Uniti come sede per siglare – ultimo passo prima della firma ufficiale – il trattato di pace finalizzato a marzo, risultato di un anno di negoziati bilaterali. Sebbene resti ancora un ostacolo, e cioè la richiesta azera di eliminare dalla costituzione armena ogni menzione al Nagorno Karabakh, Pashinyan e Aliyev si sono impegnati, in una dichiarazione sottoscritta insieme a Trump, a rispettare l’inviolabilità dei rispettivi confini internazionali. Di fatto, Washington assume un ruolo di garante, accolto con favore da entrambi i Paesi, che con la medesima concordia rifiutano oggi quello di Mosca.
L’accordo sulla strada attraverso la provincia armena di Syunik è il piatto forte dell’intesa. Una svolta che ha il potenziale di ridisegnare gli itinerari commerciali ed energetici globali integrandosi nell’emergente Rotta di Trasporto Internazionale Transcaspica (TITR), o Corridoio di mezzo: la via più breve tra Cina ed Europa. Il progetto è stato però solo delineato nei documenti firmati alla Casa Bianca, mentre i dettagli saranno definiti nel corso di tavoli tecnici. La dichiarazione di Washington menziona un collegamento “senza impedimenti” tra Azerbaigian e Nakhchivan, aggiungendo che la rotta presenterà “vantaggi reciproci per la connettività internazionale e intrastatale della Repubblica di Armenia” in un quadro di rispetto per la “sovranità, integrità territoriale e giurisdizione degli Stati”. Secondo l’accademico Nerses Kopalyan, che ha partecipato ai negoziati in qualità di esperto, il compromesso seguirà un modello “front-office/back-office” in cui gli americani ispezioneranno le merci e i passeggeri azeri in conformità con le leggi armene, condividendo i dati con le autorità locali. Ma su carta ancora non vi è nulla.
Dal punto di vista armeno, una preoccupazione fondamentale riguarda l’effettivo accesso alla rete dei trasporti azera, e l’auspicio che la rotta tra l’Azerbaigian e il Nakhchivan rappresenti solo un primo passo. Un memorandum tra Washington e Erevan mira a creare una collaborazione per la realizzazione del progetto Crocevia della Pace, presentato nel 2023 da Pashinyan con l’obiettivo di ripristinare tutti i collegamenti regionali. La portata, e la continuità, dell’impegno statunitense costituiranno il vero banco di prova. L’11 settembre, in visita a Erevan, l’assistente segretario di Stato USA per gli Affari europei e euroasiatici, Brendan Hanrahan, ha annunciato che Washington intende destinare all’Armenia 145 milioni di dollari, definiti una “tranche iniziale”.
Un’altra criticità è rappresentata dal delicato quadro geopolitico nel Caucaso meridionale. La Russia si è astenuta dal criticare apertamente l’intesa raggiunta alla Casa Bianca, che sancisce la fine del suo ruolo di arbitro nel conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche: l’ultimo tassello di un processo in corso dal 2023. Sebbene si tratti di un boccone indigesto, Mosca non pare oggi in grado di ostacolare una soluzione propiziata dagli Stati Uniti e che gode del consenso della Turchia, alleata granitica di Baku. Nel calcolo strategico del Cremlino, la nuova rotta potrebbe persino rivelarsi utile, integrandosi nel progetto di Corridoio Nord-Sud, che attraverso Azerbaigian e Iran arriva in India. Se la Russia agirà con pragmatismo – ritengono diversi analisti – forte delle tante leve di cui dispone in Armenia, cercherà di ritagliarsi un ruolo accanto alle imprese americane.
Più esplicita è l’opposizione dell’Iran, destinato anzitutto a perdere il controllo sul transito tra Azerbaigian e Nakhchivan, finora garantito tramite il suo territorio da una rotta su cui sono stati prospettati ambiziosi piani di sviluppo infrastrutturale. Teheran, neanche a dirlo, guarda con profondo sospetto a una presenza USA in prossimità del proprio confine. Tuttavia, dopo le rassicurazioni ottenute da Erevan, la sua postura si è fatta più distesa: l’Armenia ha escluso categoricamente un impiego di militari statunitensi a protezione della strada, che resterà sotto la sua piena sovranità, e ha assicurato che Teheran potrà avervi accesso, ottenendo una connessione con il Mar Nero. A ciò si aggiunge l’impegno, condiviso con Baku, di non consentire che la rotta venga utilizzata impropriamente come strumento di pressione geopolitica. L’Iran resta preoccupato ma, come la Russia, al momento non dispone dei mezzi necessari per interferire efficacemente, anche alla luce della sua vulnerabilità dopo i recenti attacchi di Tel Aviv e Washington. Queste tensioni latenti restano però sullo sfondo, e potrebbero riemergere in futuro.
Il conflitto pluritrentennale tra Armenia e Azerbaigian
Ai tempi dell’URSS, la Repubblica Socialista Sovietica Azera era collegata all’exclave del Nakhchivan, assegnatale con status autonomo, tramite una strada e una ferrovia che si snodavano lungo il fiume Aras, attraversando la RSS Armena. Il deflagrare del primo conflitto, all’inizio degli anni ‘90, sigillò inesorabilmente la tratta.
Allora, presero corpo delle proposte negoziali che ipotizzavano uno scambio territoriale per porre fine alla guerra. Forte era la spinta di Ankara, ieri come oggi assai interessata a una connessione ininterrotta con l’Azerbaigian e le repubbliche turcofone dell’Asia centrale. L’idea originaria, che avrebbe ispirato diverse varianti nei dieci anni successivi, è attribuita all’analista americano Paul Goble: l’Armenia avrebbe ricevuto una porzione di Nagorno Karabakh – la regione al centro dei combattimenti, parte della RSS Azera e poi dell’Azerbaigian indipendente ma abitata da una maggioranza armena – insieme al Corridoio di Lachin, per collegarla all’exclave. In cambio, Baku avrebbe acquisito sovranità su una via di transito per il Nakhchivan. Tuttavia, ogni tentativo di raggiungere un compromesso in questo senso, l’ultimo nel 2001-2002, andò incontro al fallimento.
Nel ‘94, quando fu concordata una tregua mediata da Mosca, Erevan aveva ottenuto di fatto il controllo non solo della regione del Nagorno Karabakh, dichiaratasi indipendente con il nome di Repubblica dell’Artsakh, ma anche di sette distretti abitati in prevalenza da azeri: più di 600mila persone furono costrette a lasciare le loro case. Questa ampia porzione di terra circondava la regione contesa fino a renderla integralmente confinante con l’Armenia e l’Iran. Nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere utilizzata come una pedina di scambio per ricevere, attraverso la diplomazia, concessioni sullo status del Nagorno Karabakh. Le cose andarono diversamente.
Con il passare degli anni, Erevan ha cominciato a reputare questi territori come propri, definendoli “liberati” sebbene si trattasse a tutti gli effetti di aree occupate. La posizione armena si è cristallizzata nel mantenimento dello status quo, con la speranza che la comunità internazionale finisse per riconoscere l’indipendenza dell’Artsakh. In parallelo, l’intransigenza dell’Azerbaigian, sempre più incline a sfruttare le proprie risorse energetiche come strumento diplomatico, si fondava sulla convinzione che il tempo avrebbe giocato a suo favore, in linea con un obiettivo di lungo termine: ridefinire con la forza gli equilibri regionali. Finché, nel settembre del 2020, Baku – affermatasi come potenza energetica dalla politica estera abilmente calibrata – lancia un’offensiva micidiale contro il Nagorno Karabakh. Erevan soccombe davanti alla superiorità dell’esercito nemico, dotato di armamenti all’avanguardia acquistati da Israele e supportato militarmente dalla Turchia.
Malgrado l’appartenenza dell’Armenia alla CSTO, l’alleanza militare a guida russa, e l’esistenza di un accordo bilaterale di mutua difesa che la lega al Cremlino, Mosca non interviene. Certo, il Nagorno Karabakh, de jure, è una regione azera e i trattati si applicano solo al territorio sovrano dell’Armenia. Ma a pesare davvero è la volontà di evitare un conflitto diretto con Ankara e Baku: l’obiettivo della Russia è preservare l’influenza nel Caucaso meridionale, scongiurando al contempo un’escalation. In un bilanciamento tra alleanze e pragmatismo Mosca assume un ruolo di mediazione. Così, l’avanzata degli azeri viene contenuta dalla Russia prima della conquista dell’intero territorio conteso, che in parte resta sotto il controllo dell’Artsakh. E il 9 novembre, dopo 44 giorni di combattimenti, l’Azerbaigian e l’Armenia firmano a Mosca un accordo di cessate il fuoco.
L’intesa prevede il dislocamento di truppe russe di peacekeeping in Azerbaigian per assicurare protezione lungo il già menzionato Corridoio di Lachin, rimasto l’unico legame tra un Nagorno Karabakh ormai spogliato delle “aree cuscinetto” e l’Armenia, da cui dipende totalmente per il proprio approvvigionamento. Al punto nove della dichiarazione trilaterale firmata al Cremlino riaffiora la questione dell’apertura di una rotta tra l’Azerbaigian e l’exclave del Nakhchivan tramite Syunik. “La Repubblica d’Armenia – vi si legge – garantisce la sicurezza dei collegamenti di trasporto tra le regioni occidentali della Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica autonoma di Nakhchivan, allo scopo di organizzare la libera circolazione di persone, veicoli e merci in ambo le direzioni. Il servizio di frontiera dell’FSB della Federazione Russa è responsabile della supervisione dei collegamenti di trasporto”. Un accordo a dir poco sfavorevole per Erevan, che non menziona alcuna reciprocità e, per di più, attraverso la presenza di soldati russi lungo la tratta avrebbe privato l’Armenia non solo dell’effettiva sovranità, ma anche del suo confine con l’Iran. Benché il termine “corridoio” non venga adoperato, le autorità azere iniziano a utilizzare la denominazione di Corridoio di Zangezur. E mentre Erevan si oppone a questa logica, la questione diviene centrale nella retorica bellicosa di Baku.
Il mutamento degli assetti regionali
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, nel febbraio del 2022, segna un punto di svolta, rafforzando ulteriormente la posizione strategica dell’Azerbaigian. Nel contesto di una guerra che assorbe enormi risorse, e in un quadro di sanzioni e crescente isolamento diplomatico, Mosca diviene sempre più dipendente da Baku e da Ankara in diversi ambiti strategici.
Questo spostamento degli equilibri di potere conferisce ai due attori regionali leve significative per esercitare influenza sul Cremlino. Nel mese di settembre, a una settimana dall’avvio della controffensiva ucraina nell’oblast di Kharkiv, l’Azerbaigian effettua delle incursioni transfrontaliere nel territorio dell’Armenia vera e propria, conquistando alture strategiche. Erevan chiede, invano, l’intervento della CSTO, che si limita a promettere l’invio di una missione conoscitiva. E il 12 dicembre Baku chiude il Corridoio di Lachin – nonostante la viabilità fosse sotto la responsabilità delle truppe russe – isolando il Nagorno Karabakh e lasciando i suoi 120mila abitanti in condizioni di grave carenza di beni essenziali. È il preludio all’attacco sferrato, dieci mesi dopo, all’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, che si arrende in un solo giorno, provocando la fuga dell’intera popolazione armena nella totale inazione dei soldati di Mosca.
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Forte della vittoria schiacciante, l’Azerbaigian continua a inasprire i toni mentre sono in corso negoziati per la firma di un trattato di pace. Al cuore della dialettica aggressiva di Baku, che ricorre frequentemente a espressioni irredentiste come “Azerbaijan occidentale” per riferirsi a intere regioni del vicino sconfitto, si trova la provincia armena di Syunik, cruciale per l’apertura dell’ambito corridoio verso il Nakhchivan e la Turchia. Assediata dalla diplomazia coercitiva azera, Erevan acconsente a ogni richiesta ai tavoli delle trattative, che sempre meno vedono coinvolta Mosca. Allo stesso tempo, l’Azerbaigian mostra chiaramente di non gradire la mediazione occidentale, cercata con tenacia dall’Armenia nel tentativo di ottenere una garanzia internazionale che ne tuteli la sicurezza.
L’ultimo incontro tra Aliyev e Pashinyan frutto di mediazione si è tenuto a luglio 2023 a Bruxelles, alla presenza dell’allora presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. I due leader avrebbero dovuto rivedersi il successivo ottobre, a margine del vertice della Comunità politica europea, a Granada. Tuttavia, il giorno prima dei colloqui previsti – che avrebbero coinvolto, insieme a Michel, il presidente francese Emmanuel Macron e l’allora cancelliere tedesco Olaf Scholz – Aliyev annulla la propria partecipazione. All’origine del rifiuto vi è l’annuncio di Parigi della vendita di armi a Erevan, decisione che si inscrive nel rapporto di vicinanza storica tra Francia e Armenia. Più in generale, Baku accusa gli europei di parzialità. Anche il canale russo si esaurisce: l’ultimo incontro, tra i ministri degli Esteri dei due Paesi, si tiene a Mosca nel luglio del 2023, pochi giorni dopo il vertice di Bruxelles. Così, a partire dal 2024, il dialogo tra Armenia e Azerbaigian si gioca sul terreno della diplomazia bilaterale.
Una pax americana nel Caucaso meridionale?
Delegazioni dei due Paesi si riuniscono con regolarità, concentrandosi sulla demarcazione dei confini e sulla finalizzazione di un documento che ponga fine al conflitto. E il 13 marzo di quest’anno, viene annunciato il completamento di un testo concordato. Nel mese di luglio Aliyev e Pashinyan si vedono ad Abu Dhabi. Al termine del vertice, si limitano a confermare la volontà di proseguire il percorso di normalizzazione. Tuttavia, alla vigilia dell’incontro, iniziano a circolare indiscrezioni su una proposta statunitense riguardante il collegamento tra Azerbaigian e Nakhchivan. A posteriori, è evidente che tale questione sia stata al centro del colloquio tra i due leader.
Alla luce degli eventi successivi, è possibile ricostruire le tappe che conducono all’8 di agosto. A segnare la svolta, è il cambio di amministrazione a Washington: Baku appare subito trovarsi più a suo agio con il nuovo team presidenziale. E l’ossessione di Trump per la sua eredità politica, l’ambizione di ottenere riconoscimenti internazionali, come il Nobel per la Pace, secondo numerosi osservatori ha rivestito un ruolo non trascurabile nella decisione di impegnarsi nel conflitto armeno-azero. A differenza di altri scenari, come quello russo-ucraino, il processo negoziale tra Armenia e Azerbaigian richiede solo incentivi mirati e garanzie di peso per ottenere risultati concreti.
A gennaio, Erevan e Washington firmano un accordo di partenariato strategico. E il 14 marzo – il giorno dopo l’annuncio della conclusione delle trattative sul testo del trattato di pace – l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, si reca in visita a Baku. All’epoca l’iniziativa apparve di non chiara lettura, ma oggi è considerata un momento decisivo. Infine, l’annuncio: l’8 agosto Aliyev e Pashinyan incontreranno Trump alla Casa Bianca per quello che viene presentato come un “vertice di pace”.
Durante l’incontro sono resi noti gli incentivi predisposti dall’amministrazione statunitense per facilitare l’intesa. Baku ottiene la cancellazione della Sezione 907 del Freedom Support Act, che dagli anni ‘90 vietava aiuti diretti statunitensi all’Azerbaigian. Inoltre, un memorandum d’intesa con Washington istituisce un gruppo di lavoro incaricato di redigere una Carta per un partenariato strategico. È stato quindi firmato un accordo di cooperazione tra la compagnia petrolifera statale azera Socar ed ExxonMobil. Erevan, già beneficiaria di un partenariato strategico, riceve promessa di altri aiuti in vari settori e, soprattutto, la garanzia implicita sulla fine della minaccia militare da parte di Baku.
Il vertice dell’8 agosto segna uno spartiacque nelle relazioni tra Armenia e Azerbaigian. La mediazione sulla rotta per il Nakhchivan ha saputo canalizzare interessi divergenti verso un compromesso pragmatico. Erevan e Baku hanno compiuto passi concreti verso una normalizzazione, coronati dall’intervento di un attore esterno in grado di imporsi come garante credibile. I prossimi mesi saranno decisivi per verificare la solidità dell’impegno statunitense. Sul fronte interno, Erevan dovrà continuare a gestire pressioni e resistenze, alla vigilia di elezioni, nel giugno del 2026, che potrebbero svolgersi insieme a un referendum costituzionale per rimuovere l’ultimo ostacolo alla firma del trattato di pace. Un appuntamento cruciale, dall’esito tutt’altro che scontato. A livello regionale, restano le incognite rappresentate da Mosca e Teheran. Eppure, se gli accordi saranno attuati appieno, lo scenario di una stabilizzazione progressiva, con un lento ma costante passaggio dal conflitto militare alla diplomazia economica, sembra a portata di mano.
Perché si possa parlare di una pacificazione autentica, tuttavia, e ammesso che entrambe le parti ne abbiano reale interesse, saranno necessari molti anni e uno sforzo sostenuto per ricostruire la fiducia tra due società che, da generazioni, non conoscono altro che guerre e demonizzazione reciproca.