Pandemia, il futuro è adesso

Il Bivio: una serie sul sistema internazionale - puntata 1

Già dal mese di marzo, a seguito degli ampi blocchi delle attività delle imprese e della mobilità personale adottati da molti governi per affrontare la pandemia Covid-19, era apparso chiaro che la sfida della crisi sanitaria si sarebbe traslata anche in una sfida economica e politica. Tuttavia, mentre la discussione mediatica e politica si era focalizzata su quale fosse nell’immediato l’“equilibrio ottimo” tra contenimento dell’epidemia e rischio di recessione (con enfasi prevalente sul contenimento per quasi tutti i Paesi, almeno fino a un calo prolungato della curva epidemica), la valutazione dell’impatto di medio-lungo termine sulle strutture economiche dei vari paesi e dei rapporti geopolitici globali è rimasta in secondo piano

L’aspetto su cui oggi è cruciale riflettere è il “bivio” di fronte al quale ci si troverà nella fase post-Covid tra cooperazione internazionale e sovranismo. Di ciò si era parlato su queste colonne già a marzo ma la presa di coscienza della gravità della questione continua a languire.

Il “bivio” tra cooperazione internazionale (che in gran parte corrisponde alla globalizzazione, come vedremo meglio) e sovranismo è conseguenza e prosecuzione di tendenze pre-esistenti al Covid ma che la profondità della crisi e le asimmetrie economiche, politiche e sociali da essa derivanti finiranno per acuire in maniera significativa e per certi versi definitiva.

 

Istituzioni e politiche di gestione della pandemia

Le asimmetrie tra paesi con cui si sono esplicitati gli effetti della pandemia derivano sostanzialmente da due fattori: 1) la situazione iniziale (pre-Covid) delle istituzioni, della struttura economica e delle finanze pubbliche; 2) le misure adottate sia in campo sanitario che economico.

L’importanza degli assetti istituzionali si è è palesata sin dall’inizio con il ritardo con cui il non democratico governo cinese ha ritardato la (propria e altrui) reazione all’apparizione del virus, e successivamente con la diversa capacità dei paesi di mettere in piedi strategie e cabine di regia più o meno efficienti, più o meno tecnologicamente avanzate – ad esempio, Sud-Corea, Israele e Singapore sono stati capaci di individuare rapidamente strategie basate su geolocalizzazione, tracciamento e analisi di “Big Data”. La stessa organizzazione di partenza delle strutture sanitarie ha giocato un ruolo fondamentale, basti pensare alle difformità tra Germania, Italia e USA. Le misure di chiusura (“lockdown”) hanno risentito dei fattori istituzionali sia nella tempistica della loro introduzione che, e soprattutto, nel livello di profondità (“stringency”) delle misure stesse (Figura 1).

Le differenze riflettono anche fattori difficilmente quantificabili – di tipo socio-culturale – come il rapporto di fiducia tra autorità e cittadini, con la relativa attitudine dell’opinione pubblica a seguire comportamenti responsabili ma “costosi” perfino in assenza di specifiche misure di enforcement. Il dato è importante ben oltre la fase più stringente delle misure di interruzione di varie attività e distanziamento sociale, influendo sul consenso per i governi nel momento, molto delicato, in cui le risorse pubbliche vanno mobilitate per sostenere la ripresa economica. In sostanza, si tratta della legittimazione democratica delle azioni governative a fronte della fornitura di servizi di tipo straordinario – spesso a debito, e dunque con costi dilazionati per l’intera società.

Figura 1 – Asimmetrie in tempi e profondità lockdown. Fonte: Elaborazioni EconPartners su dati Blavatnik Institute, Oxford University

 

Le differenze nelle strutture economiche tra paesi hanno poi contribuito in maniera diversa alla profondità della recessione e influiranno sulla capacità di recupero di ogni paese. I paesi maggiormente colpiti dalla crisi economica sono stati quelli con forte presenza di turismo e di PMI, tradizionalmente poco innovativi e con una pubblica amministrazione afflitta da eccessiva burocrazia, con finanze pubbliche fragili e quindi con scarse risorse da impiegare rapidamente a favore di imprese e famiglie. Per quel che riguarda le policy con cui è stata affrontata la crisi, il minimo comun denominatore delle misure adottate è stato quello del ricorso – con dimensioni senza precedenti – sia a strumenti monetari non convenzionali che alla politica fiscale. Tuttavia, ogni paese ha scelto un policy mix diverso – spesso significativamente diverso – sia in termini di tempistica e/o profondità delle restrizioni che di dimensione e velocità di attuazione del supporto economico a imprese e famiglie.  Le asimmetrie dell’impatto della pandemia sono sintetizzabili con le figure 1 e 2. Nelle figure le misure di lockdown implementate alle date indicate.

Come si può evincere dalla figura 2, i paesi emergenti, Cina e India in primis, saranno probabilmente in grado di uscire dalla loro pur profonda crisi più rapidamente dei paesi avanzati e per molti senza danni eccessivi (con eccezioni importanti per paesi già fragili prima della pandemia Covid19) – il tema sarà trattato in modo più approfondito nel prossimo articolo di questa “mini-serie”. Appare invece più pesante la situazione per i paesi OCSE, con crescita 2020 tra il meno 6% e il  meno 12% per pressoché tutta l’area e recuperi solo parziali nel 2021. Forti asimmetrie sono attese tra i paesi europei, asimmetrie sulle quali, a seconda della misura in cui le politiche fiscali e monetarie verranno concordate, è probabile si giochi il futuro dell’Unione. Il potenziale di conflitti, anche aspri, è palpabile.

Figura 2 – Asimmetrie economiche – Crescita PIL 2020-2021. Fonte: Oxford Economics

 

Gli attriti già esistenti tra USA e Cina così come quelli tra paesi del Sud e del Nord Europa sono una chiara testimonianza della sfida di fronte alla quale probabilmente ci troveremo.

Le prospettive economiche e gli sviluppi geopolitici continuano a essere interdipendenti, oggi come e più che in passato, ad esempio nel settore sanitario o nella definizione delle politiche monetarie. Ma sono anche potenzialmente in conflitto tra loro: basti pensare alla necessità di far ripartire il commercio internazionale e gli investimenti in nuove tecnologie (fattori economici) in un mondo dove gli spettri del protezionismo  (coni loro risvolti geopolitici) si aggirano sempre più concreti, e le migrazioni assumono contorni anche di forte rischio sanitario, mentre approcci nazionalistici sono in conflitto anche con la realtà dell’inarrestabile sviluppo tecnologico e scientifico.

 

Di fronte al bivio

La necessità di rilanciare il commercio internazionale risiede nella sua funzione di compensazione della disomogeneità della distribuzione geografica delle risorse produttive, ossia di risorse naturali, capitale e lavoro; la globalizzazione delle catene del valore non è altro che una espressione concreta di questa utilità. Allo stesso tempo, le politiche e le istituzioni pubbliche possono influenzare il commercio alterando gli incentivi all’accumulo di fattori produttivi e all’innovazione tecnologica. In alcuni settori chiave, come la difesa o la salute, le istituzioni pubbliche intervengono con incentivi e regole tipicamente più aggressive finalizzate a favorire “campioni” nazionali che garantiscano approvvigionamenti ritenuti “critici”. Le misure sono di diversa intensità a seconda dei paesi, ma praticamente senza eccezioni quanto al tentativo di assicurarsi una certa “autonomia” per ragioni strategiche e proprio in vista di possibili scenari di crisi improvvise.

La tumultuosità della globalizzazione e della tecnologia negli ultimi due decenni ha inevitabilmente prodotto problemi di gestione del modello di sviluppo (incentivi e regole) e asimmetrie di comportamento tra paesi emergenti e avanzati dovute ai diversi stadi del processo di sviluppo: la complessità derivante dall’emergenza richiederebbe quindi analisi approfondite su come migliorare e armonizzare la gestione del sistema globale di incentivi e regole degli utlimi decenni, senza lasciarsi affascinare da soluzioni apparentemente semplici come il ritorno a forme di chiusura e fai-da-te il cui risultato finale ci porterebbe indietro nell’orologio della storia.

Un esempio di questo rischio di ribaltamento del modello di sviluppo è dato dalla problematica – resasi evidente all’inizio della pandemia – della dipendenza di molte imprese, anche leader globali, da singoli siti produttivi localizzati in paesi stranieri. L’interruzione della catena dell’offerta (“supply-chain disruption”) a cui si è assistito a causa della pandemia è simboleggiata dalla chiusura delle fabbriche di Foxconn, società che assembla la maggior parte degli iPhone distribuiti su scala mondiale da Apple. Con l’avvio del lockdown in Cina, Foxconn è stata costretta a chiudere la mega fabbrica (detta “iPhone City”) nella città di Zhengzhou, con conseguenze pesantemente negative sulla produzione di Apple. In realtà, la problematica è piuttosto da inquadrare nella scarsa diversificazione del rischio attuata dalle imprese nelle loro strategie di off-shoring. Improbabile d’ora in poi pensare a una dipendenza così forte da un singolo fornitore o da un singolo sito produttivo, anche se la diversificazione del rischio comporterà inevitabilmente un costo. Dal punto di vista delle strategie aziendali è quindi da attendersi sia una maggiore attenzione alla gestione dei rischi conseguenti alla localizzazione geografica delle supply-chain, sia a una parziale inversione dei processi di delocalizzazione – inversione peraltro timidamente avviata negli ultimi anni – ma d’ora in poi collegata a una più accurata quantificazione del rischio produttivo.

Tuttavia, molti osservatori e soprattutto molti politici di ispirazione sovranista hanno immediatamente colto l’occasione per puntare il dito contro la delocalizzazione delle imprese, e per via induttiva, contro la globalizzazione stessa. La pandemia Covid-19, con la sua irruenza e profondità, ha creato le basi per una richiesta di protezione individuale, sociale e nazionale che sta facendo dimenticare come i processi di diffusione del commercio e della tecnologia siano stati storicamente tra i motori principali (Figura 3) di quella crescita economica che nell’ultimo secolo ha consentito sia un raddoppio della speranza di vita alla nascita (Figura 4) che la crescita esponenziale del reddito pro-capite, quintuplicato per gli USA, decuplicato sia per l’Europa (e anche per l’Italia) che a livello medio globale (Figura 5).

Figura 3

 

Figura 4

 

Figura 5

 

Il commercio internazionale facilita l’accesso al progresso tecnologico, consentendone così il trasferimento e le sue ricadute positive anche ai paesi emergenti. La globalizzazione, con i suoi molteplici pregi e vari difetti, è peraltro un processo ineluttabile e irreversibile grazie al continuo sviluppo di nuove tecnologie, con implicazioni importanti anche per il mercato del lavoro – sia come opportunità per lo smartworking e la continua riduzione dell’orario di lavoro che come ridefinizione delle competenze.

Le emergenze globali come le ripetute epidemie, il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale, il terrorismo, la lotta a riciclaggio e cybercrime, i flussi migratori sostenuti nel tempo – per citarne solo alcune – hanno in comune la caratteristica di essere transfrontaliere. E come tali, sono oggi affrontabili solo con la cooperazione politica e tecnologica internazionale. Arrestare la globalizzazione avrebbe l’imperdonabile effetto di rallentare in modo drastico entrambe.

 

 

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