L’ottantesimo anniversario della creazione dell’ONU coincide con un profondo ripensamento di quasi tutte le organizzazioni internazionali e delle regole che hanno segnato il cosiddetto “secondo dopoguerra”. Quel periodo storico viene spesso identificato con l’epoca d’oro dell’”ordine liberale internazionale”, su cui c’è un’ampia e interessante letteratura. E’ però opportuno esercitare molta cautela nel fare il salto logico e interpretativo tra un’aspirazione (con la costruzione del concetto stesso di “Occidente”) e un sistema globale concretamente realizzato. Anche perché l’analisi dell’eredità storica ha conseguenze pratiche sulla situazione contemporanea, visto che se ne deriva la conclusione che oggi stiamo vivendo un rapido deterioramento, o addirittura un vero collasso di quel presunto “ordine”.
La maggiore obiezione a questa tesi è che è assai arduo identificare quando esattamente quello specifico “ordine” sia stato realmente vigente e dominante: si prende a riferimento l’anno 1945, ma i leader politici di allora, come anche i cittadini comuni, non avevano affatto la percezione che si fosse consolidata una modalità di rapporti globali definibile come “liberale”, e in effetti neppure capitalista e di mercato. Al contrario, il mondo appariva in bilico tra forze contrastanti che potevano facilmente spingere vaste regioni in una direzione ben diversa.
In realtà, il carattere “liberale” del sistema internazionale è stato soprattutto un’ambizione e un obiettivo, sebbene alcuni suoi elementi siano stati incardinati nelle alleanze a guida americana, nelle maggiori istituzioni a vocazione universalistica della famiglia ONU (la realizzazione tardiva di un preesistente ideale cosmopolita che era fallito con la Società delle Nazioni), e in un’organizzazione del tutto sui generis come quella chiamata “Comunità Europee”, antesignana della UE. Va precisato, allora, che semmai esisteva un sistema di rapporti interstatuali e transnazionali di quel tipo in forma decisamente incompleta, quasi una nicchia di consenso in un contesto globale ostile; dunque, un ordine incompiuto e su scala certamente non globale.
Leggi anche: Europe’s moment: taking the helm of the “free world”
Del resto, perfino all’interno della “sfera americana” che corrispondeva grossomodo al “blocco occidentale” e alla NATO, si sono registrate notevoli tensioni fin da subito, e ancor più alla metà degli anni ’50 (la crisi di Suez del 1956, ad esempio). Eravamo appena un decennio dopo la fine della guerra mondiale – piuttosto poco per poter parlare di una lunga fase indiscussa di “egemonia” statunitense.
Si potrebbe allora, come già specificato qui, ridefinire l’ordine liberale (internazionale solo nel senso di abbracciare molti Paesi, ma non globale) soprattutto come Pax Americana, in parte volontariamente accettata da partner e alleati, e in parte tollerata come minore dei mali in un contesto difficile, nel tentativo di allargarne la membership quando possibile. Eppure, anche in questa accezione ben più limitata ci sono alcuni problemi.
Viene dato spesso per assodato che il periodo d’oro della Pax Americana coincida con la costruzione delle istituzioni multilaterali del secondo dopoguerra, incorniciate nell’ONU – una sorta di “organizzazione-quadro” per varie agenzie specializzate. In particolare, si indicano le due maggiori istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) come il nucleo economico che puntava anche a dare una profonda impronta sociale (dunque politica) al processo di decolonizzazione già avviato in quegli anni sotto una forte guida americana. E si aggiunge, correttamente, che la centralità del dollaro come moneta di scambio e di riserva fece da grande collante; cosa indubbiamente vera, ad esempio, per l’ampliamento dell’OECE (l’organizzazione creata per attuare il Piano Marshall di aiuti americani all’Europa occidentale) a Paesi come Giappone e Canada (con la trasformazione in OCSE) nel 1961.
Il grave limite di questa interpretazione storica sta nel fatto che – anche prescindendo per ora dalla sua imprecisata fase declinante o terminale – il suo periodo di maggiore splendore corrisponde drammaticamente con la Guerra Fredda. Tale fase storica, che per i politologi è un tipo peculiare di sistema internazionale “bipolare”, è stata per definizione uno scontro (ideologico, politico, economico, militare) che fortunatamente (forse fortunosamente) non è esploso in una guerra “calda”. E’ stato un quarantennio con regole del gioco fortemente ed esplicitamente contestate, caratterizzato da crisi gravi (perfino a ridosso della soglia del conflitto nucleare) e frequenti.
Basta rileggere le cronache con gli occhi e le parole dei protagonisti di allora – invece che con i nostri – per rendersene conto. Si pensi alle crisi di Berlino del 1948-49, Corea 1950-53, Budapest e Suez 1956, “Sputnik” 1957 (non un luogo, ma il simbolo di un pericolo), ancora Berlino 1961, Cuba 1962, Praga 1968, Medio Oriente 1973, Afghanistan 1979. Elenco decisamente incompleto (si può aggiungere ad esempio il Vietnam e molte guerre africane) e in parte arbitrario, ma quantomeno suggestivo. Furono, comunque, tutte situazioni di altissima tensione in cui il futuro apparve incerto e fosco[1].
Sarebbe davvero una tragica ironia della Storia se qualcuno insegnasse oggi agli studenti che la Guerra Fredda fu una lunga fase di pace e tranquillità, travisando il titolo di un famoso e ottimo libro del 1987, “The Long Peace” dello storico John Lewis Gaddis – il quale intendeva sottolineare l’assenza di un conflitto diretto e nucleare tra le due superpotenze, e non certo una situazione stabile e “pacifica”. Ed è probabilmente un equivoco anche ritenere che vi fosse allora un “ordine internazionale” ben definito, chiaro a tutti i contemporanei e non contestato, da contrapporre a un mondo che ci appare ora molto confuso e dunque ben più pericoloso. Basta un semplice esperimento: chi è disposto a indicare un qualsiasi mese del periodo 1950-1990 (per scegliere due date rotonde) in cui non vi fosse da parte dei leader di USA e URSS la percezione di una “policrisi” in atto (usando l’espressione molto in voga nei nostri anni, introdotta da Adam Tooze sul Financial Times)? Forse la vera policrisi degli anni Venti che stiamo vivendo è una crisi di memoria, insomma un’amnesia collettiva.
Si può dunque raggiungere una conclusione interessante: la concezione, oggi assai diffusa, secondo la quale la fine della Guerra Fredda avrebbe segnato l’avvio di una fase di crescente instabilità, è un’affermazione che non regge alla prova dei fatti storici, se si usa la memoria con cura.
Rimane una seconda ipotesi, che vede una breve età aurea dell’ordine liberale internazionale negli anni subito successivi al crollo (quasi del tutto pacifico) dell’URSS. In effetti, pochi mesi prima della dissoluzione ufficiale dello Stato sovietico, nel novembre 1990, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU – solitamente paralizzato, prima e dopo di allora – riuscì a votare la Risoluzione 678 che concedeva agli Stati membri l’uso di tutti i mezzi necessari per costringere l’Iraq a ritirarsi dal Kuwait. Ma fu praticamente un’eccezione assoluta, e meno di quattro anni dopo il consenso sulle Risoluzioni per l’uso della forza internazionale a difesa delle popolazioni minacciate in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo fu molto più tiepido e annacquato – fino ad un dissenso aperto sulle operazioni aree contro la Serbia che la NATO decise comunque di lanciare nonostante il blocco al Consiglio di Sicurezza. Quando gli USA di G.W. Bush invasero nuovamente l’Iraq nel 2003, lo fecero con pochissimi alleati e contro il parere dell’ONU. Insomma, l’età dell’oro era già finita.
Il cosiddetto “momento unipolare”, in cui si presume che gli USA avessero una presa saldissima sul sistema internazionale, soffre poi di una strana sindrome poiché nessuno sa dire esattamente quando sia definitivamente tramontato. Con le crisi balcaniche degli anni Novanta? Con l’11 settembre 2001 (quando l’attacco alle Torri gemelle causò, sì, un’ampia solidarietà internazionale ma certo non segnalò un trionfo liberale)? Con la crisi finanziaria del 2008? Con la prima invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa nel 2014?
Si tratta comunque di una breve parentesi, e più probabilmente di un’ipotesi di lavoro che non si è mai realizzata, o forse nuovamente di un’ambizione rimasta tale.
Leggi anche: Il fattore democrazia e il “Power South”
In estrema sintesi, se l’ordine internazionale liberale a guida USA è stato molto incompleto e/o di breve durata, è probabile che stiamo adottando un metro di paragone fuorviante nel valutare l’attuale assetto globale – sovrastimando, in particolare, il grado di perdita di influenza che gli USA stanno subendo. Le difficoltà che Washington deve affrontare nel mondo sono reali, e la sfida cinese è già in corso in alcuni settori-chiave, ma leggere il passato in modo sfocato non aiuterà a costruire il futuro.
Il problema di fondo è comunque l’uso degli eventi storici che assumono un forte valore simbolico, fino ad essere idealizzati e diventare miti fondativi. In un’utilissima riflessione sul senso della storiografia, Margaret MacMillan ha notato che l’uso e abuso della Storia sta anche nella scelta di cosa dimenticare[2]. Coloro che professano un grande amore per il passato (MacMillan li chiama “preservazionisti”) vorrebbero in realtà che il tempo si fermasse, per ancorare il presente a un preciso momento del passato. Sono tutte pericolose illusioni, se si deformano gli eventi per farli coincidere con una visione funzionale a un qualche progetto politico. Così, la Seconda Guerra Mondiale fu senza alcun dubbio una cesura epocale, ma non risolse tutte le ambiguità ereditate dai primi quattro decenni del secolo. Ad esempio, la Cina che si trovò dalla parte dei vincitori (la narrazione che ha usato Xi Jinping nelle commemorazioni di questo settembre 2025) non era ovviamente la Repubblica Popolare Cinese, ma una fragile coalizione (il “fronte unito”) delle forze nazionaliste e di quelle comuniste (che si sarebbero imposte solo nel 1949); in modo analogo, tutte le potenze europee (anche quelle formalmente vincitrici come Gran Bretagna e Francia) uscirono dal conflitto fortemente ridimensionate e in un certo senso sconfitte sul piano “imperiale” o comunque avviate a perdere ciò che rimaneva dei loro possedimenti coloniali. Infine, l’Unione Sovietica concluse la guerra in pessime condizioni, e solo dopo aver cambiato schieramento a seguito dell’invasione tedesca del giugno 1941; e, nonostante molte debolezze interne, quasi subito affermò le proprie ambizioni “quasi-imperiali” in contrapposizione con l’ex-alleato americano.
A ottant’anni dalla nascita di un grande esperimento di pace come l’ONU, tutto questo ci deve ricordare che la storia è sempre un misto di rapporti di potere e confronto tra ideali. Le alterne fortune dell’ordine liberale internazionale (un grande e nobile ideale) intersecano la parabola della distribuzione del potere (militare, economico, tecnologico) lungo il XX e XXI secolo.
Chi ritiene che questa sia comunque un’eredità preziosa, meritevole di essere difesa e magari adattata a circostanze nuove (come chi scrive), può farlo senza provare alcuna nostalgia: quell’ordine liberale non c’è mai stato, a livello globale. E’ quasi tutto da costruire.
[1] Questa e la prossima sezione dell’articolo sono tratte in parte dal volume Il ritmo della libertà: il fattore tempo in politica ed economia, Roberto Menotti e Maurizio Sgroi, Rubbettino, 2024, pp.61-67.
[2] Margaret MacMillan, The Uses and Abuses of History, Penguin Canada, 2008.