Oltre il Nagorno-Karabakh: l’ombra degli Imperi sul Caucaso

Si spara ancora in Nagorno-Karabakh. Mediato dalla Russia fra Armenia e Azerbaijan, il cessate il fuoco non è finora riuscito a far tacere le armi. Può darsi che le continue violazioni di cui entrambe le parti si accusano siano scosse di assestamento, dovute a reciproci tentativi di posizionarsi meglio su un irregolare terreno montagnoso. Se anche si arriverà a una reale tregua sarà fragile e sempre esposta alla ripresa di ostilità, piccole o grandi. Non c’è pace in vista per uno scontro ormai allagatosi ad attori internazionali.

Il terreno montagnoso della regione

 

Mosca ha sempre giocato all’apprendista stregone con i “conflitti congelati” nello spazio ex-sovietico, avvantaggiandosi della loro intrattabilità per rimanerne arbitro indispensabile. La tenuta del cessate il fuoco è pertanto anche un test dell’influenza che la Russia esercita nella sfera territoriale che considera proprio dominio riservato. Ancora notevole: quando convocati da Sergey Lavrov, i due Ministri degli Esteri armeno e azero sono andati a Mosca, ma non senza concorrenza. Non inossidabile: tornati i Ministri a Yerevan e a Baku, il cessate il fuoco ha subito mostrato la corda. Ci prova adesso il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che li ha invitati a Washington. Difficilmente il tardivo intervento americano otterrà risultati migliori, se non quello, forse, di catturare una manciata di voti armeni per Donald Trump – che è il vero scopo dell’iniziativa diplomatica di Pompeo.

Nel Caucaso, assente l’Europa, in ritiro gli Stati Uniti, la Russia deve fare i conti con la Turchia e, sullo sfondo, con lo scalpitio dell’Iran. E non dimentichiamo che siamo su uno dei tracciati della nuova Via della Seta cinese.

Il riaccendersi del confitto per il Nagorno-Karabakh è esplosivo per due motivi. Militare il primo: questa volta sono scese in campo armi più sofisticate che in passato e sono state usate in bombardamenti che hanno colpito anche obiettivi civili. Le sole perdite militari armene arriverebbero, ad oggi, a 500. Politico il secondo: l’appoggio, apertamente dichiarato, della Turchia all’Azerbaijan ha trasformato il territorio conteso in un oggetto di competizione con la Russia – come lo sono Libia e Mediterraneo orientale – in una regione ricca di idrocarburi oltre che di rivalità locali. La geopolitica è così entrata a gamba tesa nella “guerra dei trent’anni” fra Armenia e Azerbaijan per il controllo del conteso Nagorno-Karabakh. Abitato da armeni, ma facente parte dell’Azerbaijan SSR nella vecchia URSS, grazie all’ingegneria delle nazionalità di Josef Vissarionovich Stalin.

La Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia con l’exclave del Nagorno-Karaback

 

Quella guerra era stata per lo più dormiente dopo la fase acuta del 1993-94 in cui l’Armenia aveva avuto la meglio consentendo la nascita della Repubblica di Artsakh, indipendente sulla carta, totalmente e volontariamente subordinata all’Armenia e non riconosciuta da nessuno. Non si era però mai spenta o disinnescata nonostante gli inesauribili, quanto inconcludenti, tentativi di trovare una soluzione diplomatica internazionale attraverso l’attività del “gruppo di Minsk” (sotto l’egida dell’OSCE) cui partecipa anche l’Italia assieme a una dozzina di Paesi. Gli armeni non vogliono restituire il territorio all’Azerbaijan; gli azeri non sono disposti a consentire che si tenga un referendum perché la popolazione armena voterebbe sicuramente la secessione. Contro questi scogli non c’è diplomazia internazionale che tenga. Fra ricorrenti tensioni e schermaglie, il conflitto era rimasto essenzialmente locale, o comunque contenuto alla regione. Non più. Questo il principale nuovo elemento che viene allo scoperto con l’attuale crisi.

La visione binaria della competizione geopolitica in corso, Turchia pro-Azerbaijan e Russia pro-Armenia, è semplicistica. L’appoggio di Ankara a Baku è in effetti lineare. L’offensiva è partita dall’Azerbaijan; la Turchia non ha fatto nulla per scoraggiarla. Anzi, è difficile immaginare che Ilham Aliyev, Presidente azero, si sia mosso senza un tacito benestare di Recep Tayyip Erdogan. Da anni la Turchia fornisce all’Azerbaijan le armi avanzate, come droni e missili, che hanno spostato la bilancia militare a favore degli azeri. Ankara ha negato di aver inviato mercenari dalla Siria a combattere per l’Azerbaijan, come denunciato dall’Armenia con qualche conferma dalla Siria. Non ci sarebbe però da stupirsi: mercenari siriani (come pure russi) erano comparsi in Libia. Per la Turchia il cessate il fuoco è un “primo passo importante, ma non può sostituire una soluzione duratura”. Che, per Ankara, parte dalla restituzione del Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan, non dal proseguimento del trentennale status quo che lo vede sotto controllo armeno.

Il presidente azero Ilham Aliyev e quello turco Recep Tayyip Erdogan si scambiano documenti al 7° summit del Consiglio di Cooperazione Strategica di Alto Livello tra Turchia e Azerbaijan, nel 2018

 

Il versante russo è invece più complesso. Il dilemma di Mosca è come aiutare l’alleato armeno senza punire l’Azerbaijan che, nell’ottica russa, è un modello di buon comportamento bilaterale. Fra Mosca e Baku non sono mancate rivalità nel gioco dei gasdotti in quanto gli azeri si sono offerti come alternativa al monopolio di Gazprom nelle forniture all’Europa, in particolare col TAP che approda in Italia. Aliyev ha però accuratamente evitato di mettersi contro Mosca e ha mantenuto scevro di accenti anti-russi il cauto avvicinamento all’Occidente, compresa la collaborazione a scala ridotta con la NATO. Questa politica estera “multidirezionale” dell’Azerbaijan, piccolo capolavoro di equilibrismo diplomatico, facilitato da risorse energetiche e posizione strategica, paga evitando un automatico allineamento Russia-Armenia.

Quanto alla Russia l’esercizio è altrettanto se non più acrobatico. L’Armenia è un alleato, membro del CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, la mini-NATO russa), che impegna alla reciproca difesa territoriale in caso di attacco. L’obbligo però non scatta finché sotto attacco è il Nagorno-Karabakh che non fa parte dell’Armenia e la cui (teorica) appartenenza all’Azerbaijan è tuttora internazionalmente riconosciuta. Ma se la Russia non è tenuta scendere in campo a favore dell’Armenia per la difesa del Nagorno-Karabakh, politicamente non può permettere che l’alleato sia sconfitto.

Questo anche se fra Mosca e Yerevan il clima è tiepido, con un governo armeno arrivato al potere sulle ali di una protesta di piazza e con istinti democratici poco graditi al Cremlino. D’altro canto, con tutte le loro simpatie cripto-occidentali, i nuovi leader armeni, sia il Presidente Armen Sarkissian che il Primo Ministro Nikol Pashinyan, sanno di aver bisogno della Russia – proprio per il Nagorno-Karabakh. Quindi l’alleanza tiene.

Quando si è accorta che la situazione precipitava in una guerra in piena regola, la Russia è corsa ai ripari riuscendo ad estrarre dalle due parti il cessate il fuoco. Se tiene – ad oggi un grosso punto interrogativo – sarà una toppa, temporanea perché le dinamiche regionali continueranno a spingere Armenia e Azerbaijan allo scontro finché non trovino una composizione politica. Al momento entrambi rifiutano.

Il numero ufficiale delle vittime del conflitto ha già superato le 600

 

Dall’esterno, Ankara cerca spazi nel Caucaso, Mosca li difende. Erdogan e Putin hanno essenzialmente un rapporto d’affari, sono spesso in concorrenza ma non alieni da compromessi, accordi tattici e collaborazione, come dimostra l’acquisto turco delle batterie di difesa anti-missile russe S-400. Tuttavia, il coinvolgimento russo-turco finisce con l’incoraggiare le due parti all’intransigenza anziché al compromesso sul Nagorno-Karabakh: l’Armenia, sapendo di poter contare sulla protezione del Grande Fratello russo, si lo tiene stretto; l’Azerbaijan, forte del sostegno turco, frustrato nell’attesa di una soluzione diplomatica che non arriva, cerca   quella militare.

Per la Russia questo è un campanello d’allarme. A ormai trent’anni dalla disintegrazione dell’URSS non uno dei conflitti, congelati solo per modo dire – Transnistria in Moldova; Abkhazia e Sud Ossezia in Georgia; Nagorno-Karabakh fra Azerbaijan e Armenia – è sulla via della normalizzazione. Si sono aggiunti Crimea, pacificamente annessa ma senza alcun riconoscimento internazionale, e Donbass in Ucraina. In Bielorussia, il regime dell’irrequieto ma fedele Lukashenko scricchiola sotto la spinta di forze che non vogliono cambiare la politica estera ma chiedono un po’ di democrazia, virus temuto più di Covid a Mosca. Ad eccezione dei Baltici che hanno trovato ospitalità euro-atlantica, nessuna delle Repubbliche ex-sovietiche dell’area europea e caucasica offre a Mosca garanzie di stabilità interna e/o di relazioni non conflittuali.

Dopo aver scherzato col fuoco la Russia rischia di scottarsi. Può consolarsi per la mancanza di concorrenza geopolitica da Ovest: gli Stati Uniti pensano ad altro, e forse si capisce – sono lontani; gli europei sono vicini ma assenti quando, come in Nagorno-Karabakh (o in Libia…), il gioco si fa duro e il “soft power” non basta. Quella che torna a spirare, in Caucaso, è la brezza dei vecchi Imperi: zarista, ottomano, persiano e, dietro l’orizzonte, celeste.

 

 

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