Dal punto di vista del Primo ministro Suga Yoshihide, succeduto poco meno di un anno fa ad Abe Shinzo, non poteva esserci un momento peggiore per lo svolgimento delle elezioni per il Consiglio metropolitano di Tokyo. Il caos preolimpico alimentato dalla crescita di casi di coronavirus e dalla prospettiva di una estensione dello stato di emergenza non poteva non giovare all’opposizione di sinistra (Partito Costituzionale democratico e Partito comunista): sventolando la bandiera della cancellazione o almeno del rinvio dei Giochi, questa ha infatti conseguito il 4 luglio un ottimo risultato, mentre il Partito liberal-democratico di Suga si è fermato a 33 seggi su 127, rosicchiando solo qualche voto al movimento (Tomin First) della inossidabile governatrice Koike Yuriko.
I Giochi e il Giappone al bivio
Questo risultato fornisce indicazioni fuori dagli schemi: è probabile che il futuro politico del Giappone dipenda da come andranno le Olimpiadi, a partire dal 23 luglio. Immediatamente a ridosso dei Giochi, o al più tardi tre/quattro mesi dopo qualora si arrivasse allo scioglimento della Camera bassa il 21 ottobre alla conclusione naturale della legislatura, avranno luogo elezioni per il rinnovo del più importante dei due rami del Parlamento. E sebbene sia azzardato anche solo ipotizzare un tracollo della attuale coalizione formata dal Partito liberal-democratico di Suga (PLD) e dal conservatore-religioso Komeito, che oggi detiene i due terzi dei seggi, è invece probabile che la marcia di avvicinamento al voto risulti complicata e forse non priva di colpi di scena.
Come andranno le Olimpiadi, dunque, appare il cardine della questione per Suga, almeno sotto due aspetti. In primo luogo i Giochi devono suscitare entusiasmo e orgoglio tra la gente. Impensabile rinverdire i fasti delle Olimpiadi del 1964, quelle del risveglio della Nazione e dell’inizio del boom economico dopo la tragedia della guerra. E e poco ragionevole, incombendo l’epidemia di Covid, anche attuare il piano alla base di questa nuova edizione, quello che enfatizzava il ritorno al sereno dopo l’altra più recente tragedia nazionale, il Grande terremoto del 2011 che originò il devastante tsunami sulle coste nord-orientali del Giappone. Ma almeno occorre dare un segnale di efficienza in termini sia sportivi sia organizzativi, fare capire che il governo ha fatto bene, appoggiando le istanze del Comitato Olimpico Internazionale, a dare il via libera ai Giochi ignorando non solo le controindicazioni sanitarie, ma anche gli umori popolari.
In secondo luogo le Olimpiadi non devono essere la causa di una nuova ondata epidemica. I numeri dei contagiati sono ancora relativamente bassi in Giappone, paragonabili a quelli attuali in Italia, ma nelle ultime settimane si è registrato un costante aumento e se questo moderato trend si trasformasse, con l’arrivo di migliaia di atleti, accompagnatori e giornalisti da ogni parte del mondo, in una corsa verso l’alto, Suga sarebbe spacciato. Perché, così come è accaduto per le elezioni a Tokyo del 4 luglio, anche per le legislative dei prossimi mesi sarà la preoccupazione del Covid a dominare la scena. E se nei giorni scorsi si poteva anche dare credito alle autorità, grazie al balzo in avanti nella campagna vaccinale dopo mesi di colpevoli ritardi, in autunno si potranno tirare le somme dati alla mano, e gli eventuali errori balzeranno agli occhi. A meno che non si individui una via di fuga, che potrebbe essere rappresentata da nuove, più virulente preoccupazioni.
Le tensioni nel Pacifico
Il contesto internazionale in cui si trova ad agire oggi il governo giapponese, in effetti, sembra suggerire una soluzione di questo genere e offrire occasioni per “distrarre” l’opinione pubblica seguendo il copione che mescola sentimenti anti-cinesi, rigurgiti nazionalistici e psicosi per la sicurezza, in passato già adottato con successo.
Forse non è un caso che proprio negli ultimi giorni si siano moltiplicate le prese di posizione di esponenti governativi – la più significativa del Ministro delle Finanze e vice-premier Aso Taro – sulla necessità di dare una risposta muscolare alle recenti, non meno muscolari dichiarazioni del leader cinese Xi Jinping su Taiwan. Un serio incidente a Taiwan provocato da un’aggressione cinese, ha detto Aso, metterebbe in discussione la sopravvivenza stessa del Giappone. “In tal caso Giappone e Stati Uniti devono difendere Taiwan insieme”. Ancora più in là si è spinto il Vice Ministro della Difesa Nakayama Yasuhide, chiedendosi se, di fronte a quelle che giudica inaccettabili provocazioni cinesi, non sia opportuno cambiare radicalmente rotta nei rapporti con Pechino. In concreto ha proposto di riesaminare la decisione di aderire alla politica di “Una sola Cina”, pietra miliare della normalizzazione col potente vicino.
Parole che non giovano ai buoni rapporti con la Cina e che rischiano di portare Suga ben oltre il limite che si era prefissato quando, durante il vertice col presidente americano Joe Biden ad aprile, aveva accettato che nella Dichiarazione congiunta venisse inserito un riferimento alla “importanza della pace e della sicurezza nello stretto di Taiwan”: prima citazione esplicita da parte di Tokyo dell’isola che Pechino considera parte integrante del suo territorio da quando Cina e Giappone hanno normalizzato, 49 anni fa, i loro rapporti.
Le carte di Suga
Covid, Olimpiadi e Taiwan, che nulla hanno a che vedere tra loro, finiscono così con l’annodarsi e non sembra che Suga sia l’uomo più adatto per sbrogliare la matassa. Ha infatti due evidenti punti deboli. Da un lato, pur condividendo in pieno la politica estera assertiva del suo predecessore, Suga si è sempre affidato alle riforme interne, dal lavoro, al welfare, alla riduzione delle tariffe telefoniche, per dare credibilità alla sua immagine di leader. Non ha avuto difficoltà a chiedere e ottenere da Biden l’assicurazione che gli americani appoggiano senza riserve il Giappone nella difesa delle isole Senkaku dalle pretese cinesi, ma allargare il principio di autodifesa collettiva elaborato e maneggiato con destrezza da Abe fino a prevedere un intervento diretto delle Forze di autodifesa per “salvare la democrazia” a Taiwan, come la destra del PLD sembra suggerire, richiede una capacità di gestione delle crisi internazionali che ben pochi attribuiscono all’attuale premier.
In secondo luogo Suga non gode del prestigio di Abe sia di fronte all’opinione pubblica sia all’interno del suo partito. L’attuale premier è andato al potere, a settembre 2020, con un tasso di approvazione del 60% che è sceso in primavera al 40 per navigare ora poco sopra il 30, ed ha conosciuto alle elezioni soltanto sconfitte (in aprile quando erano in lizza tre seggi rimasti vacanti) o risultati deludenti (a Tokyo il 4 luglio). E’ soprattutto ostaggio dei giochi tra le correnti del PLD, la cui conflittualità è un dato costante della politica nipponica. Abe era riuscito a ottenere una sostanziale tregua, avendo il sostegno della fazione di Hosoda Hiroyuki, la più forte, e di quella di Aso Taro, nonché distribuendo i posti di potere con abilità. Ma Suga, che non ha una propria fazione alle spalle, non è in grado di fare altrettanto.
E’ stato scelto per guidare il Paese perché non c’era all’interno del PLD una personalità in grado di prevalere sulle altre e per lo stesso motivo si supponeva che a settembre i capi fazione avrebbero finito col confermarlo presidente del partito (e quindi automatico premier in caso di vittoria elettorale) piuttosto che incoronare un avversario. Ma, visti i risultati non brillanti delle elezioni a Tokyo, se le Olimpiadi e i vaccini non daranno i frutti sperati la posizione di Suga potrebbe cominciare a traballare già nel summit del Partito a settembre, specialmente se nel “mercato” delle cariche non riuscirà ad accontentare gli aspiranti a quelle più ambite. Senza contare la mina vagante rappresentata da Koike, la governatrice di Tokyo transfuga del PLD riconfermata l’anno scorso e dunque per nulla toccata dal voto del 4 luglio sebbene il suo Partito sia sceso da 46 a 31 seggi. Anzi non pochi sospettano che il profilo basso da lei tenuto in campagna elettorale prefigurasse addirittura un suo ritorno nelle file del PLD nelle vesti di salvatrice della patria.
Neppure il quadro economico aiuta Suga. Il PIL è in calo: nel primo trimestre 2021 dell’1% rispetto al trimestre precedente e del 3,5 su base annua. La disoccupazione è in leggero aumento. Il debito, già il più alto del mondo rispetto al PNL, è salito ancora con spese in bilancio, per l’anno fiscale 2020, di 1.600 miliardi di dollari. Ma i guai provocati dal Covid, con le restrizioni imposte a molte attività e la necessità di accrescere i sussidi alle categorie più colpite, forniscono non poche giustificazioni. La paura indotta dall’epidemia ha poi provocato una contrazione dei consumi interni con la conseguenza che il traguardo di portare l’inflazione al 2%, obiettivo posto nel lontano 2013 da Abe e mai raggiunto, resta una chimera. La deflazione e il pericolo di una nuova recessione continuano a incombere sulle prospettive economiche; perfino le esportazioni che fino a pochi mesi fa costituivano una valvola di salvezza sono ora ostacolate dalla crescente difficoltà di approvvigionarsi di micro-conduttori, una vera tegola per l’industria elettronica giapponese che già comincia a rallentare la produzione.
Nondimeno Suga ha sempre in mano la carta delle elezioni anticipate, che potrebbe indire già all’indomani della cerimonia di chiusura delle Olimpiadi. Ha infatti buone ragioni per confidare, insieme a tutto il PLD, sulla proverbiale preferenza per la stabilità di un elettorato che, quando ha cambiato umore come nel 2009 mandando al potere il Partito democratico, si è rapidamente pentito della sua scelta. Il Giappone profondo non è Tokyo, dove la gente, sia pure in sparuti gruppetti, osa perfino manifestare contro il governo. Lo zoccolo duro del 30% è intoccabile così come la dote del 10% portata dal partito buddhista Komeito: numeri che, col sistema elettorale vigente a livello nazionale, garantiscono ai liberaldemocratici di restare al potere.