“C’è un futuro”. Già nel nome il partito di Yair Lapid, trionfatore delle elezioni israeliane dello scorso 22 gennaio, prospettava una svolta. Il futuro, oggi, è divenuto presente e mai come ora assomiglia al passato.
Gli indizi sono numerosi. È sufficiente rilevare che nel governo appena formato dal premier Benjamin Netanyahu il comitato degli Affari economici della Knesset – vera e propria fonte di ossigeno per i coloni presenti (e per quelli in arrivo) in Cisgiordania – è stato affidato alla guida di “Habayit Hayehudi”, il partito della ultradestra nazional-religiosa guidato da Naftali Bennett. A ciò si aggiunga che il nuovo ministro dell’Edilizia, Uri Ariel, è sin dai tempi degli Accordi di Oslo uno dei più efficaci sostenitori della colonizzazione dei territori palestinesi.
Già tra il 2009 e il 2011, stando ai dati forniti dall’Israel Central Bureau of Statistics (CBS), gli investimenti dedicati agli insediamenti sono cresciuti del 38%. Tale tendenza, con l’attuale governo, è destinata a crescere. Non fosse altro per il fatto che gli insediamenti restano più che mai funzionali a fornire abitazioni a buon mercato e dunque, come sottolineato da Diana Pinto su Project Syndicate, a risolvere uno dei principali problemi dell’elettorato di riferimento del partito di Yair Lapid: la classe media.
La sindrome del “futuro-passato” ha colpito, in forme e modi diversi, anche gli altri due principali protagonisti della tragedia israelo-palestinese.
Per mesi, numerosi autorevoli giornali internazionali, nonchè diversi esponenti politici palestinesi, hanno sottolineato che i colloqui in corso al Cairo tra Fatah e Hamas stavano “rinvigorendo l’OLP” (Khaled Meshaal dixit): essi, si diceva, avrebbero aperto la strada a un nuovo percorso all’insegna della riconciliazione.
La realtà si è rivelata ancora una volta più prosaica degli slogan. Un recente editoriale apparso su Asharq Al-Awsat ha notato, con argomentazioni efficaci, che l’attuale stallo nei colloqui tra le due fazioni è per molti versi senza precedenti.
Le responsabilità, come sempre avviene in questi casi, non sono univoche. Fatah, Hamas e le autorità israeliane hanno infatti contribuito in forme diverse a esacerbare tale frattura. Il movimento al potere nella Striscia di Gaza, che di recente ha impedito alle donne residenti in loco di partecipare a una maratona organizzata dalla United Nations Relief and Works Agency (UNRWA), continua ad essere “prigioniero” dei suoi muri mentali: impossibilitato a metabolizzare il passato, incapace di guardare al futuro.
Fatah è sempre più percepita come uno strumento per mantenere ciò che Ehud Yaaari ha definito una “occupation by proxy”. È inoltre indispensabile per tenere in vita ciò che resta degli Accordi di Oslo. Sebbene questi ultimi siano stati più volte violati e non abbiano mai sostituito la Convenzione dell’Aja del 1907 ed altre norme consuetudinarie e/o convenzionali, restano, nelle parole di Noam Sheizaf, il principale strumento legale al servizio dell’occupazione.
Israele, infine, prosegue nella sua consolidata politica del divide et impera. In un recente articolo per l’Institute for National Security Studies (INSS), Shlomo Brom ha sottolineato quanto difficile sia per Israele lamentarsi delle conseguenze che esso subisce a causa dell’indebolimento della leadership palestinese, dal momento che “Israele stesso vi ha contribuito”.
Ma più che nel nuovo governo israeliano, o nelle lacerazioni inter-palestinesi, è nella prima visita del presidente Obama in Israele e Palestina che, per molti versi, è stato possibile notare le sembianze del passato nella retorica connessa al futuro.
Le aspettative tra i palestinesi, così come nel resto del mondo arabo, erano minime sin dall’inizio. L’88,8% delle persone coinvolte in un sondaggio condotto a inizio marzo dall’università An-Najah di Nablus ritenevano che le politiche adottate da Washington fossero prevenute in favore di Israele. Tale percezione è stata ulteriormente avvolarata dall’esiguo tempo dedicato dal presidente americano ai territori palestinesi – più precisamente a Ramallah e Betlemme, per molti le due città meno indicate per osservare ciò che sta avvenendo sul campo – e ai suoi rappresentanti.
L’approssimarsi dell’evento aveva comunque contagiato anche il pubblico apparentemente più distaccato. La realtà, a dispetto di quanto riportato da numerosi media, ha frustrato anche le sia pur limitate attese: “Obama – spiega Salim Anati, l’unico medico residente del campo profughi di Shuafat – ha visitato l’Israel Museum, ha reso omaggio allo Yad Vashem, ha deposto fiori alla tomba di Theodor Herzl. Azioni comprensibili. Mi chiedo tuttavia per quale ragione non abbia sentito l’esigenza di avvicinarsi anche ai nostri traumi, magari visitando Ein Hod, Iqrit e migliaia di altre cicatrici della nostra storia”.
Molti palestinesi, inoltre, lamentano il fatto che Obama abbia fatto riferimento a un “diritto storico” solo in riferimento a Israele e che la citazione di Ariel Sharon (“It is impossible to have a Jewish, democratic state and at the same time to control all of Eretz Israel”) abbia indirettamente supportato un uso selettivo della religione, nonchè l’idea che siano i coloni a dover concedere qualcosa che appartiene loro. Altri ancora, infine, hanno rilevato che le problematiche connesse all’Iran e alla Siria hanno dominato gran parte dei colloqui tra le parti, contribuendo a “silenziare” una cronica emergenza locale che è possibile comprendere, nei suoi risvolti più profondi, solo vivendo sul posto.
Una percentuale consistente dell’opinione pubblica israeliana, per contro, ha ricevuto il presidente Obama con un’attitudine conciliante. Dai microfoni di Galatz, la radio dell’esercito, Irit Linor si è lasciata andare a un paragone ironico tra l’accoglienza ricevuta da Obama e quella che verrebbe riservata al Messia.
Già due giorni prima dell’arrivo di Obama, un sondaggio realizzato dall’Israel Democracy Institute in collaborazione con l’Università di Tel Aviv notava che il 53% degli ebrei israeliani giudicano “equilibrato” l’approccio del presidente, a fronte di un 23% che lo valuta “filo-palestinese”, e un 18% “filo-israeliano”. Tale tendenza, a seguito del tour presidenziale, è destinata a rafforzarsi.
Al di là se tali valutazioni siano o meno condivisibili, è innegabile che il presidente Obama ha avuto il merito di parlare al cuore degli israeliani, rassicurandoli di non essere soli nel fronteggiare le sfide di un più che mai incerto presente. Sull’altro fronte, ha mostrato coraggio quando ha ricordato, a Ramallah, che c’è stato un tempo “when my daughters did not have the same opportunities as somebody else’s daughters”.
Al contempo, tuttavia, gran parte dei suoi gesti e delle sue dichiarazioni – compresi i timidi giudizi, fini a se stessi, rivolti agli insediamenti, etichettati dal presidente come “non costruttivi” – hanno implicitamente avallato uno status quo che a un numero crescente di persone non sembra poi così controproducente. Come ha spiegato Chemi Shalev su Ha’aretz, i territori palestinesi “registrano una fase di calma senza precedenti, gli insediamenti si moltiplicano, i palestinesi sono in uno stato agonizzante per via delle loro divisioni interne, e il mondo arabo – il mondo intero, si potrebbe dire – è alla prese con la degenerazione della Primavera Araba”.
Fino ad oggi l’amministrazione Obama ha preferito condannare ogni tipo di “unilateralismo”, ponendo ad esempio il veto alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che nel febbraio del 2011 indicò come “illegali” gli insediamenti in Cisgiordania e allo stesso tempo opponendosi, nel novembre 2012, al riconoscimento della Palestina come Stato non-membro dell’ONU. Ogni intervento “esterno” continua ad essere associato ad una “intromissione indebita” all’interno di una questione bilaterale. Ciò, tuttavia, oltre ad equiparare colonizzazione e autodeterminazione, ignora il fatto che ogni intervento avvenuto negli ultimi 90anni, compresa la risoluzione ONU 181 del 1947, è stato caratterizzato da quel medesimo “vizio di forma”.
Nessun dubbio che l’approccio di Washington sia dettato soprattutto da considerazioni legate all’opinione pubblica interna. Lo scorso 17 marzo, ad esempio, il Washington Post-ABC News ha pubblicato un sondaggio dal quale emerge che il 55% degli americani “sympathize more with Israel”, a fronte di un 9% favorevole alla controparte. Il medesimo studio rivela che il 69% degli americani spinge affinchè gli Stati Uniti non abbiano alcun ruolo nel processo di pace. Nel lungo periodo – qualora questi dati fossero effettivamente rappresentativi – tali considerazioni potrebbero rivelarsi controproducenti per ognuna delle parti in causa: Come ha scritto Akiva Eldar su Al-Monitor, abbandonare il proprio ruolo di leadership sul “Processo di pace” equivarrebbe a una dichiarazione di bancarotta per la politica estera americana.
Il 17 settembre di 217 anni fa, il presidente George Washington dopo otto anni di presidenza, lasciava un’eredità scritta per quella che sarebbe diventata la maggiore potenza della storia contemporanea. Le sue parole appaiono come un potente monito rivolto al “futuro-passato” che scandisce il nostro presente: “A passionate attachment of one nation for another – scrisse Washington – produces a variety of evils […] It leads also to concessions to the favourite Nation of priviledges denied to others”.