Una leadership, per essere efficace, necessita di consenso. Tra le tante debolezze dell’amministrazione Bush vi è stata anche quella rappresentata da un consenso, domestico e internazionale, che dopo il 2003 è costantemente diminuito. Ciò ha contribuito all’erosione dell’immagine degli Stati Uniti, alla crescita dell’impopolarità di Bush e, soprattutto, alla riduzione dell’influenza degli Stati Uniti.
L’elezione di Obama ha drasticamente modificato questo stato di cose. In modo (e con rapidità) del tutto inimmaginabili solo fino a un paio di anni fa, l’America è tornata a rappresentare un modello e, in una certa misura, un punto di riferimento per il resto del mondo. La figura di Obama, con la sua improbabile e sincretica biografia, ma anche la dimostrazione di vitalità offerta dalla democrazia statunitense hanno rilanciato con forza il mito di un’America capace sempre di risollevarsi e rinascere. Il mondo ha assistito prima con scetticismo e poi con crescente partecipazione alla parabola di Obama. Se avesse potuto votare, quel mondo avrebbe scelto Obama con maggioranze schiaccianti.
Ecco perché una parte significativa di questo mondo percepisce oggi Obama anche come il proprio Presidente. Sui temi di politica estera e sulle grandi questioni internazionali il candidato Obama, come del resto il presidente in pectore di questi ultimi due mesi, si è espresso in modo spesso vago e generico. Ma se del mondo Obama ha parlato poco, al mondo Obama ha parlato sin da quando è apparso sulla scena politica. Vi ha parlato come campione di un’America diversa da quella di questi ultimi anni: un’America sofisticata, cosmopolita, liberal, aperta e inclusiva. E vi ha parlato anche come espressione di un’America nella quale il resto del mondo non cessa mai di specchiarsi.
A questo consenso internazionale si aggiunge ora la grande popolarità interna di Obama. I sondaggi indicano al riguardo tassi che oscillano tra il 70 e l’80%: quasi venti punti percentuali in più rispetto a quelli di cui godevano prima del loro primo insediamento Bill Clinton e George W. Bush. Anche una parte degli elettori di McCain è stata contagiata dall’entusiasmo suscitato dall’elezione di Obama, oltre che dalla forza inclusiva e bipartisan del discorso politico del nuovo presidente.
Nel corso del XX secolo, e in particolare dopo il 1945, qualsiasi politica estera degli Stati Uniti ha avuto bisogno di un doppio consenso, interno e internazionale, per essere efficace e raggiungere i propri obiettivi. Solo questo doppio consenso permette agli Usa l’effettivo esercizio di una leadership mondiale che consegue oggettivamente al loro primato di potenza. Obama dispone oggi di questo doppio consenso. Ne dispone in un contesto peraltro estremamente difficile, nel quale la capacità degli Stati Uniti di intervenire in vari teatri si è grandemente ridotta e con una crisi economica che ogni giorno rivela un volto nuovo e sulla quale si dovranno concentrare gran parte delle attenzioni della nuova amministrazione.
Lo scarto tra aspettative (altissime) e possibilità (limitate e decrescenti) è quindi molto forte, e le disillusioni, per gli Stati Uniti così come per gran parte del mondo, saranno inevitabili. La rinnovata forza egemonica – il nuovo soft power – di cui gli Usa dispongono grazie alle recenti elezioni subirà subito un’erosione. La subirà però anche in conseguenza di un aspetto che una disamina dei due consensi rivela: la loro non complementarità. Detto banalmente ciò che l’America chiede a Obama è molto diverso da ciò che il mondo si aspetta dal nuovo Presidente.
Per gran parte degli americani è necessario che l’amministrazione si concentri maggiormente sulle questioni interne, se necessario con politiche economiche espansive e di sussidio ai settori industriali maggiormente in difficoltà. Il resto del mondo, e soprattutto le élite internazionaliste che hanno accolto con entusiasmo l’elezione di Obama, auspicano invece una rimodulazione – in senso multilateralista, collaborativo e consensuale – e non un abbandono di quelle ambizioni universalistiche che hanno storicamente caratterizzato il modo statunitense di stare nel mondo.
Si discute oggi molto degli anni Trenta, di Roosevelt e della necessità di un nuovo New Deal. Nel farlo si tende a dimenticare che anche gli Stati Uniti di Roosevelt contribuirono con le loro scelte – protezionistiche, isolazioniste e di appeasement del revisionismo nazista – alla definitiva implosione del fragile quadro di regole e interdipendenze su cui poggiava il sistema internazionale allora. Oggi non vi è il rischio di un nuovo, impraticabile isolazionismo. Ma è su questa sfida, su come conciliare richieste diverse che concorrono però entrambe ad alimentare la rinnovata forza egemonica degli Stati Uniti, che verrà testata la capacità di leadership di Obama.