Prima lezione: lo scontro fra comunità ebree e palestinesi sta contagiando Israele. Non è più solo uno scontro esterno ma interno a Israele stessa. Questo cambia la natura del conflitto: si sta tornando agli attacchi diretti fra comunità ebree ed arabe precedenti alla formazione dello Stato di Israele. Dalla spianata delle Moschee del 2021 alla Hebron del 1936. E si è passati nell’arco di dieci giorni dalla eventualità di un governo di coalizione israeliano che includesse per la prima volta un partito arabo, a incidenti violenti di natura etnica e religiosa che hanno coinvolto, dopo Gerusalemme Est, le cosiddette “città miste” e la periferia di Tel Aviv. Il rischio è una guerra civile, più o meno strisciante.
Seconda lezione: il mantra diplomatico di una soluzione fondata su due Stati indipendenti e sovrani, appare oggi una formula vuota. Dal punto di vista di Benjamin Nethanyahu, risuscitato politicamente dalla guerra con Hamas, lo status quo attuale è da preservare: un solo Stato nei fatti, lasciando che la parte islamica-radicale del fronte palestinese, tenuta sotto controllo dalla superiorità militare di Israele, controlli Gaza; e che una discreditata Autorità palestinese faccia finta di governare la West Bank. Senza elezioni, preferibilmente. Per Hamas, persuasa che il tempo giochi a suo favore, il futuro è un unico Stato, cancellando Israele. Per la destra israeliana in ascesa, nel presente e nel futuro esiste solo lo Stato degli ebrei, con i suoi insediamenti ben al di là degli obsoleti confini del 1967. Se queste sono le posizioni a confronto, l’attuale cessate il fuoco è soltanto una tregua, fino alla prossima eruzione violenta. Il conflitto israelo-palestinese è diventato parte dei dossier “intrattabili” per la diplomazia internazionale: è lì per restare.
Terza lezione: l’unica vera democrazia medio-orientale, Israele, è in stallo politico. Se i palestinesi non votano quasi mai, gli israeliani continuano a votare senza riuscire a raggiungere un assetto stabile. Appare ormai clamorosa, in effetti, la distanza che esiste fra la vitalità intellettuale e tecnologica di Israele e la paralisi della vita politica. Come ha osservato Dominique Moisi, sulla scorta del suo bel libro sulla geopolitica delle emozioni, gli ultimi mesi hanno dimostrato che per Israele è più semplice sconfiggere la pandemia che dominare le tensioni identitarie della propria popolazione. In cui rientra una quota crescente (20% circa) di cittadini arabi. Messa di fronte a una minaccia esistenziale, Israele risponde con uno strumento necessario – la dissuasione militare – ma non sufficiente a garantire una vittoria o una soluzione politica. Il che rafforza l’indicazione precedente: il conflitto riesploderà.
Se era illusorio pensare che la questione palestinese potesse essere semplicemente rimossa dalle mappe della politica mediorientale – è la quarta lezione – i diritti dei palestinesi non torneranno tuttavia ad essere centrali nell’agenda dei paesi arabi che hanno firmato con Israele gli Accordi di Abramo e che guardano soprattutto, come Gerusalemme, agli equilibri regionali con l’Iran, sponsor di Hamas. La questione palestinese verrà piuttosto utilizzata da attori in ascesa come l’Egitto per affermare il proprio ruolo regionale: in questo caso mediando la tregua, come già nel 2014. Saranno insomma le dinamiche interne alla regione mediorientale, più che la diplomazia internazionale, a condizionare l’andamento futuro dello scontro israelo-palestinese. E’ un esito facilitato da un’Amministrazione americana che ha altre priorità, a cominciare dal confronto con la Cina.
La quinta lezione, infatti, è che l’Amministrazione Biden non intende farsi risucchiare dal conflitto o tentare soluzioni di pace irrealistiche. Ma dopo avere riconosciuto il diritto fondamentale di Israele a difendersi, Biden ha premuto ripetutamente su Netanyahu per ottenere un cessate il fuoco (6 telefonate in successione, secondo fonti di Washington) e ha parallelamente appoggiato il tentativo di al-Sisi di “portare a casa” Hamas. Il presidente americano, che ha poi annunciato aiuti umanitari ed economici per Gaza, ha giocato quindi la carta della diplomazia sotto traccia. E’ una scelta che lo ha esposto alle critiche di parte dei democratici americani, favorevoli a una pressione molto più rapida e aperta su Israele.
Resta il punto di arrivo: dopo alcune esitazioni iniziali, la Casa Bianca ha utilizzato le sue leve di influenza, certamente più rilevanti di quelle europee, per ottenere la tregua e rafforzare la mediazione egiziana. Molto di più è “sfortunatamente” impossibile fare oggi – ha scritto su Foreign Affairs Martin Indyk, a suo tempo nominato da Barack Obama inviato speciale in Medio Oriente.
Una postilla sull’Europa: in questo caso le lezioni non riguardano il conflitto israeliano-palestinese – su cui l’Unione europea non è riuscita neanche ad esprimere in modo unitario (per il dissenso dell’Ungheria) le solite dichiarazioni di principio – ma piuttosto confermano la crisi delle ambizioni geopolitiche enunciate da Ursula von der Leyen a inizio mandato. L’Europa ha interessi importanti in gioco, insieme alle responsabilità storiche derivanti dalla Shoah. Ma non sembra pienamente consapevole né dei primi né delle seconde.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 24 maggio 2021