Democrazie sotto pressione: la normalità delle crisi

 Si discute sempre più spesso di una crisi in atto dei sistemi democratici. Si tratterebbe della crisi di un modello, e non soltanto di casi isolati o disparati. La discussione è seria e fondata, poiché in effetti molti dubbi sul funzionamento delle società di questo tipo sono ormai diffusi al loro stesso interno – tra i cittadini-elettori, tra gli eletti, e tra gli osservatori più esperti (coloro che, oltre a essere cittadini, studiano il fenomeno in modo professionale). Eppure, vi sono alcune buone ragioni per adottare una certa prudenza prima di arrivare a giudizi definitivi.

Anzitutto, le categorie di cui discutiamo vanno scelte con attenzione: democrazia è un termine ampio che richiede qualche connotazione in più – come dimostra un’espressione oggi in voga come “democrazie illiberali”. Il fatto che possano esistere forme “illiberali” di democrazia implica ovviamente che ne esistano forme liberali. Due precisazioni ci aiutano allora a definire la “democrazia dei moderni”: liberale e di mercato. Di questa particolare combinazione – democrazia liberale di mercato – stiamo parlando, nel bene e nel male.

La precisazione è importante perché ci ricorda che le dinamiche interne ai nostri sistemi politici, come anche quelle in corso tra di essi (politica estera e vari fenomeni transnazionali), non riguardano soltanto un assetto istituzionale, ma anche un insieme di valori e comportamenti sociali (liberali, per quanto non sempre definiti in modo rigoroso) e un tipo di rapporti economici (di mercato, per quanto temperati e incanalati dalle regole e dall’azione pubblica).

L’altro termine che non possiamo dare per scontato è quello di “crisi”: se per crisi intendiamo un passaggio catartico, una specie di “momento della verità” senza appello, stiamo allora fraintendendo l’esperienza democratica – e forse perfino l’intera esperienza politica almeno della storia moderna. Come ha sottolineato in un libro del 2013 (“The Confidence Trap. A History of Democracy in Crisis from World War I to the Present”)  il politologo David Runciman, la storia delle democrazie ha visto un ripetersi periodico di errori molto simili, senza un reale processo di apprendimento; eppure, proprio nel “tirare avanti”, crisi dopo crisi, questi sistemi di governo hanno dimostrato il loro maggiore punto di forza. L’adattamento, perfino l’improvvisazione, hanno consentito di superare gravissime sfide, interne ed esterne, ideologiche, sociali, tecnologiche, militari, ambientali – senza una vera visione strategica ma piuttosto con una strana capacità di aggiustamento tattico.

Eppure, proprio la memoria breve delle democrazie – la loro mancanza di pianificazione a lungo termine –  ha quasi immancabilmente portato a commettere ancora errori simili. Se è così, tuttavia, ne consegue che le crisi per i sistemi democratici non sono davvero momenti di svolta senza ritorno (tranne rari casi di collasso e transizione verso altri sistemi di governo); sono invece picchi di tensione dopo i quali si torna al “business as usual”, con qualche correttivo.

Questa interpretazione, che Runciman ha articolato meglio di altri, è illuminante per una serie di dilemmi che stanno investendo molti paesi occidentali negli ultimi anni: ad esempio il passaggio rapido dall’euforia del 1989-91 (la caduta del Muro di Berlino, della cortina di ferro e della stessa Unione Sovietica), che ha portato con sé il progetto ambizioso di allargamento ad Est sia della NATO che della UE, ai dubbi esistenziali sulla tenuta stessa dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione europea. In altre parole, come siamo passati dalla “fine della storia” alla fine della fiducia nella storia e nel futuro dell’Occidente? Un secondo quesito che attanaglia oggi il dibattito democratico è relativo alle tecnologie digitali pervasive e ai loro effetti sociali: possibile che una creazione dei processi innovativi nelle migliori economie di mercato rischi ora di erodere le fondamenta del liberalismo? E’ insomma opportuno chiedersi ormai se la democrazia possa essere uccisa da un eccesso di connettività.

In entrambi i casi – la reazione alla fine del mondo “bipolare” e la digitalizzazione accelerata delle società – guardare alla democrazia moderna come a un esperimento continuo consente di non fraintendere i momenti di difficoltà: sono fasi di cambiamento che producono rischi ma anche opportunità, e danni ma anche vantaggi. Del resto, Samuel Huntington aveva notato già all’inizio negli anni Novanta che l’eventuale progresso nell’adozione di sistemi democratici – comunque arduo e lento – si verifica probabilmente in forma di “ondate”. Dunque, non si deve confondere il dato di breve periodo (anni e cicli elettorali) con un trend di medio (decenni) o lungo periodo. La marea sale e scende, ma l’evoluzione della democrazia non segue comunque andamente lineari – semmai ciclici o, nella migliore delle ipotesi, a spirale (per cui un lento progresso c’è davvero ma passa per battute d’arresto e regressi temporanei). Ciò che vale a livello mondiale per la possibile diffusione dei regimi democratici vale anche a livello interno per la maggiore o minore efficacia e legittimità delle scelte operate dalle società governate democraticamente.

Le democrazie liberali di mercato sono piuttosto duttili nell’escogitare soluzioni pragmatiche a nuovi problemi perché incoraggiano la sperimentazione e perfino una certa confusione creativa. Come ad esempio ha notato Benjamin Barber, riflettendo sul rapporto tra rischi (il deterioramento, l’oscillazione dell’opinione pubblica) e vantaggi (l’auto-correzione): “Democracy corrupted turns mass opinion toward naricissism and self-interest. Democrary actualized and legitimate offers a politics of hope against corrupted democracy’s politics of fear” (“Cool Cities. Urban Sovereignty and the Fix for Global Warming”, 2017, p.8). Queste due pulsioni – corruzione e legittimità – sono in costante dialettica, e non si dovrebbe neppure idealizzare la “saggezza delle masse”, quasi che i cittadini sapessero scegliere meglio dei loro leader: come aveva evidenziato già Joseph Schumpeter, la realtà è probabilmente che né i leader né i comuni elettori hanno in mente uno schema di azione chiaro e pienamente razionale, ma la competizione democratica per il consenso fa comunque emergere nuove ipotesi per tentativi. In altre parole, le democrazie non hanno alcun vantaggio comparato intrinseco in termini di soluzioni ai problemi, ma la loro stessa natura le porta a fare più tentativi nella ricerca di soluzioni possibili. Accettando per definizione la possibilità permanente del fallimento tattico, come ovviamente nel caso delle sconfitte elettorali, i protagonisti della competizione democratica creano spazio per l’evoluzione. E lo fanno spesso in modo inconsapevole.

E’ un concetto che si può esprimere in termini di “resilienza”, se si ripercorre nella storia l’alternarsi di eccesso di entusiasmo, condiscendenza, e poi eccesso di delusione e paura del futuro: un ciclo democratico che non si esaurisce mai eppure consente sempre di escogitare qualche soluzione pragmatica e temporanea. E proprio in tale ricerca di soluzioni tollerabili, sebbene chiaramente imperfette, viene spesso in soccorso l’economia di mercato – che infatti chiamiamo a volte “libero mercato”. Le dinamiche dei mercati sono strutturalmente caratterizzate da fallimenti di breve termine (il fallimento di singole aziende, perfino di interi settori), dalla volatilità soprattutto finanziaria (accelerata poi dalla digitalizzazione della finanza), ma anche dalla cosiddetta “distruzione creativa” e dalla capacità di rinnovarsi, creando addirittura settori di produzione e consumo che non esistevano prima. C’è una forte somiglianza con i meccanismi della politica democratica, e ciò non è affatto casuale perché questi meccanismi si sono sviluppati, nella loro forma attuale, in modo parallelo. Non senza tensioni e conflitti, ma comunque in tandem.

In estrema sintesi, la critiche più comuni ai sistemi democratici ne sottovalutano la resilienza e la continua trasformazione, in particolare se si considera la loro stretta interazione con il liberalismo e con l’economia di mercato.

C’è però un’altra seria obiezione che viene spesso mossa alle democrazie liberali: esse sarebbero diventate incapaci di premiare e coltivare il merito, l’eccellenza e l’efficienza, finendo per mancare di capacità decisionali in un mondo sempre più complesso. La tesi parte spesso dalla constatazione dei rapidissimi progressi realizzati da alcuni paesi dell’Asia orientale in campo economico e sociale, proprio grazie a una fortissima disciplina meritocratica – amministrativa prima ancora che politica. Un autore come Parag Khanna ha ad esempio sottolineato un errore analitico molto diffuso in Occidente, per cui si confonde la politica (democratica) con la capacità di governare; ovviamente, in chiave di efficienza è la seconda che fa la differenza (“Technocracy in America: Rise of the Info-State”, 2017).

Khanna in sostanza consiglia di puntare tutto su una meritocrazia “tecnocratica” per gestire la complessità, la competizione e il cambiamento accelerato, sfruttando al meglio il potenziale innovativo e produttivo del capitalismo di mercato. In altri termini, neppure la politica democratica deve diventare un ostacolo sulla via dell’efficienza decisionale ed economica, del cosiddetto “info-stato” adatto a prosperare nel XXI secolo.

Si deve però notare, in risposta a questa tesi, che l’efficienza tecnocratica non è certo correlata in modo specifico con i sistemi autocratici o con le democrazie illiberali (sebbene non sia correlata neppure con le democrazie liberali): è  una sorta di risorsa trasversale, buona per tutte le stagioni e compatibile con vari sistemi politici. Inoltre, i meccanismi di mercato sono certamente i maggiori stimoli al progresso, ma è ben noto che vari difetti o eccessi del capitalismo possono essere corretti con buoni risultati proprio dall’intervento della politica – e, come si è visto, la politica democratica favorisce la sperimentazione.

Insomma, gli stessi fautori della tecnocrazia, per quanto irritati dai difetti delle democrazia liberale, comprendono l’esigenza di “salvare” il sistema, invece di distruggerlo; cercano correttivi piuttosto che sostituti. E c’è un’ottima ragione: le alternative alle democrazie liberali di mercato non sono molto attraenti. Se si cerca una migliore qualità complessiva della vita, e una buona prospettiva di libera scelta per i propri figli (come quelli che i ricchi cinesi mandano a studiare all’estero), conviene tuttora scommettere sulle tante imperfezioni delle democrazie moderne. In attesa della prossima crisi. 

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