Non è stata soltanto la vittoria di Donald Trump. È stata anche la vittoria dei Repubblicani. Alle elezioni per il rinnovo del Congresso, infatti, il partito si è mosso in maniera indipendente rispetto al candidato alla presidenza. Per confermare, dopo lo spoglio, la maggioranza dei seggi sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato.
Durante la campagna elettorale non è stato inusuale vedere, specialmente negli “swing states”, uffici del Gop dove il nome di Trump non compariva nemmeno: tutte le energie erano dedicate all’elezione di deputati, senatori e cariche locali.
Il risultato più eclatante però è arrivato al Senato. Era in quest’organo che i Democratici puntavano a ribaltare la maggioranza Repubblicana, grazie a una decina di sfide considerate alla portata. Il Gop ha perso “soltanto” due seggi, cosa che gli permette, per quanto in maniera risicata, di mantenere il controllo del Senato, che tengono dal 2008. I 51 senatori “rossi” non saranno sufficienti per superare i meccanismi di ostruzionismo che i Democratici potranno mettere in pratica (per il famoso “filibustering” ne servirebbero 60). Ma bastano per confermare le nomine presidenziali e garantire a Trump una transizione tranquilla: già un ottimo risultato, se si considera il clima politico non del tutto calmo che vivono gli Stati Uniti in questi giorni.
Fra le varie nomine quella più delicata, naturalmente, sarà quella della Corte Suprema. Il più alto organo di giustizia degli USA è rimasto senza un giudice (i membri vi sono eletti a vita) dopo la morte improvvisa del conservatore Antonin Scalia, nel luglio di quest’anno. Degli otto giudici rimasti, seppure in teoria assolutamente indipendenti, quattro sono considerati di tendenza progressista e quattro conservatori. Si comprende dunque l’importanza del nono componente, in un collegio che è l’interprete autentico della Costituzione americana.
Una parte dell’elettorato repubblicano, infatti, è pronta a giustificare qualunque strappo ideologico e qualunque intemperanza caratteriale del presidente perché la Corte rimanga “sotto controllo” conservatore. Tenere il Senato, benché appunto con un solo seggio di maggioranza e avendone persi due, è dunque considerato un vero trionfo: quasi pari alla conquista della Casa Bianca. In questo clima, va sottolineata la sconfitta di Kelly Ayotte, senatrice del New Hampshire di primo mandato considerata da molti una grande promessa della politica nazionale. Trump potrebbe farla rientrare sulla scena offrendole un posto nel governo: si fa il suo nome tra i papabili a Segretario della Difesa, lei che ha lavorato nella Commissione per le Forze armate.
Anche alla Camera i Repubblicani perdono rispetto alla situazione precedente, ma solo sei seggi. Il che significa che mantengono una cinquantina di seggi di vantaggio sui rivali Democratici. Questi, al contrario che per il Senato, nemmeno nei sogni più rosei avrebbero creduto di poter invertire la situazione; la leader del partito Nancy Pelosi, però, pensava che almeno venti sarebbero potuti essere conquistati. Si sbagliava.
La sconfitta, e il vento che soffia da sinistra, dovrebbero imporre un nuovo capo del partito ai Dem: qualcuno che sia gradito a Bernie Sanders e ai suoi compagni della “rivoluzione politica”, dalla senatrice Elizabeth Warren al sindaco di New York Bill de Blasio. Il nome prescelto è quello di Keith Ellison, deputato “ultra-liberal” del Minnesota nonché primo musulmano eletto al Congresso. Nella cerimonia tradizionale ha prestato giuramento su una copia del Corano presa dalla biblioteca di Thomas Jefferson, non sulla canonica Bibbia.
Dal lato dei Repubblicani, ha invece consolidato la sua posizione Paul Ryan, lo speaker della Camera che ha passato tutta la campagna a cercare la giusta distanza da tenere rispetto a Trump: alla fine lo ha appoggiato ma non sostenuto (evitando di condividere con lui il palco durante gli eventi della campagna). Durante la Election Night, Ryan è passato da agnello sacrificale, nel caso avesse vinto Hillary, a eroe della destra mainstream e controparte moderata del presidente eletto. Il Freedom Caucus, il gruppo parlamentare anti-establishment che aveva fatto fuori il predecessore di Ryan, è stato messo all’angolo dall’ondata trumpiana, e lo speaker è stato rieletto all’unanimità dal gruppo.
Dunque, Donald Trump arriva alla Casa Bianca nelle migliori condizioni possibili per esercitare il suo potere. Sapendo che alle elezioni di mid-term, fra due anni, l’elettorato potrebbe punire il partito di governo e indebolire la sua forza parlamentare, ha bisogno di lavorare assieme ai Repubblicani del Congresso per sfruttare al meglio questo inizio di mandato. Allo stesso modo, il Gop ha l’opportunità di scrollarsi di dosso l’immagine del “partito del no” che vive di ostruzionismi e opposizioni, emersa durante i mandati di Barack Obama, ripresentandosi come forza di governo credibile.
Sia Trump che i Repubblicani del Congresso hanno interesse al compromesso: nessun presidente vorrebbe trovarsi, alla fine del suo mandato, nella posizione in cui è adesso Obama, il quale dice che è colpa del Congresso se non è riuscito ad aiutare quella fetta di classe medio-bassa che ha cercato rifugio sotto l’ala di Trump.
Molte energie saranno spese prima dell’Inauguration di gennaio per negoziare alcune priorità sulle quali le due parti possono lavorare fianco a fianco. La politica fiscale è certamente l’area in cui è più facile trovare un’intesa fra la sensibilità di Ryan e quella di Trump, mentre le divergenze sul libero scambio e le alleanze internazionali sono gli ostacoli più difficili da sormontare. Si vedrà innanzitutto sul fronte interno se Trump è davvero l’“artista del deal” che dice di essere.